Alfredo Stussi. Tracce
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Abstract
Alfredo Stussi. Tracce. Roma: Bulzoni, 2001. 71 p., 18 tav. (Humanistica, 23). ISBN 88-8319-620-1. Eur 11,00.
Una prima ragione, alquanto estrinseca che induce a segnalare in questa sede il libro di Stussi, attiene all'origine del libro, che riprende il testo di un seminario tenuto nel 1999 presso la fondazione SPEBLA di San Gimignano nell'ambito del corso "La moderna catalogazione": si tratta quindi di un contributo, che non andrà letto soltanto dal punto di vista strettamente filologico-linguistico, ma anche dal versante bibliotecario, non foss'altro perché depositarie delle "tracce", cui il libro è dedicato, sono per l'appunto le biblioteche e gli archivi.Tracce si intitolava un paragrafo del noto intervento di Armando Petrucci nella Letteratura italiana Einaudi (Storia e geografia. 2, L'età moderna, Torino: 1988, p. 1202 ss.) dedicato alla "Storia e geografia delle culture scritte" e che Stussi richiama in sede di presentazione. Osservava Petrucci che «in Italia, come in Francia, i più antichi testi letterari sono stati tramandati in forma di aggiunte avventizie ed occasionali effettuate in genere sulle carte finali di guardia di codici latini», si tratta di «scritture materiali informali […] che abbiamo convenuto di definire "tracce"». Ancora Petrucci osservava che «un preciso ed analitico censimento dei testi volgari "antiquiores" scritti e tramandati in forme e modi di "scritturalità" non ancora formalizzati non esiste ancora, sia perché la categoria è di difficile (e recente) individuazione, sia perché se ne scoprono continuamente di nuovi». Negli anni trascorsi da quell'intervento si sono susseguite nuove scoperte e proprio Stussi, maestro di studi di storia della lingua italiana, è anche un appassionato indagatore e scopritore di «tracce», cui ha dedicato parecchi interventi in varie sedi, qui documentati nella bibliografia che chiude il volume.
La definizione della tipologia s'è fatta nel tempo più sicura e i caratteri principali sono ora indicati da Petrucci in un intervento del 1999 e ora da Stussi che ne riprende le linee principali, approfondendone alcuni aspetti. Innanzitutto l'inserimento di testi in spazi lasciati vuoti di codici compiutamente scritti appare oramai come un uso diffuso e generalizzato nel Medioevo; principali caratteristiche di questi inserti sono la brevità, l'essere tracciati per lo più da scriventi occasionali e soprattutto l'essere di «diversa natura» rispetto al testo preesistente. L'eterogeneità rispetto al testo principale viene indicato da Stussi come di fondamentale importanza per consentire di discriminare cosa sia traccia e cosa non lo sia: così, alla luce di questo principio, non sono tracce le glosse a un testo, anche episodiche, o le aggiunte integrative a un testo, ad esempio una cronaca, effettuate da diverso scrivente. Un ulteriore aspetto è rappresentato dal «riuso», nel senso che le tracce vengono inserite posteriormente in un codice già scritto, riutilizzandone parti rimaste vuote; da questo punto di vista i palinsesti non appartengono alla categoria delle tracce, perché la scriptio superior si sovrappone ed elimina la scriptio inferior, non gli si affianca come nel caso della traccia e inoltre l'interesse degli studiosi è riferito a quest'ultima e non al testo aggiunto in sovrapposizione. Infine Stussi esclude, si direbbe a ragione, dal concetto di traccia i frammenti (o maculature) di pergamene riusate come coperte di codici, camicie per custodire documenti, rinforzi di legature: anche da questi frammenti si ottengono importanti recuperi testuali, però è evidente che non hanno il carattere di aggiunte e di riuso voluto del testo, si tratta infatti di fogli superstiti al naufragio del documento complessivo di cui in origine erano parte integrante.
Come s'è detto "tracce" sono quasi tutti i monumenti linguistici volgari delle origini, non solo italiani, quali il venerando Indovinello veronese e i tre antichi superstiti ritmi (cassinese, su Sant'Alessio e laurenziano), ma anche in lingua d'oil, in spagnolo, in ladino. Tuttavia negli ultimi anni il ritrovamento di nuove tracce e una rinnovata attenzioni a tracce già segnalate in alcuni casi in cataloghi di fondi di archivi e biblioteche, hanno portato all'emersione e alla pubblicazione di testi poetici duecenteschi, non solo non noti, ma in alcuni casi tali, per antichità e colorito linguistico, da avere «importanti conseguenza sul piano storico-letterario, obbligandoci a ripensare sistemazioni orami canoniche» della nostra poesia delle origini. È il caso della versione non toscanizzata di una canzone di Giacomino Pugliese (Isplendiente stella d'albore), restituita qualche anno fa da una traccia zurighese ove fu trascritta da «una mano databile ai tardi anni Trenta del Duecento» (p. 19) e dell'altrimenti ignota canzone Quando eu stava in le tu' cathene, ritrovata da Stussi stesso (e in questa sede ripubblicata) assieme ad altro breve testo poetico in una pergamena dell'Archivio storico vescovile di Ravenna, ove furono trascritti «alla fine del XII secolo o all'inizio del successivo». Stante le datazioni proposte, la traccia zurighese retrodata di una cinquantina d'anni le testimonianze di testi siciliani, mentre quella ravennate «rappresenta la più antica documentazione di lirica profana in volgare italoromanzo… Tanto basta, e avanza, per porre il problema del rapporto coi Siciliani» con la conseguenza necessità di «verificare la tenuta d'una cronologia passata in giudicato, secondo la quale gli inizi della Scuola si collocano nei primi anni Trenta».
Se non tutte le tracce hanno un peso di tale fatta, pure spesso non mancano di interesse storico, così il più antico serventese caudato semplice della nostra letteratura, pubblicato da Stussi fin dal ù1967, è conservato in un codice Palatino della Nazionale Centrale di Firenze e risale alla metà del Duecento, mentre di circa un trentennio gli è posteriore l'interessante serventese amoroso pratese di recente pubblicato dal Fantappiè e nascosto finora nelle carte di un registro notarile (Nuovi testi pratesi dalle origini al 1320, a cura di Renzo Fantappiè, Firenze: Accademia della Crusca, 2000, vol. 1, p. 21-23). Per contro un sonetto e una ballata conservati entrambi all'archivio di stato di Padova, e pubblicati ancora da Stussi, restituiscono interessanti testimonianze della fortuna della lirica toscana in area padana. Infine, sempre trascegliendo dalla ricca esemplificazione presentata, «alla fine di un registro cartaceo di livelli conservato nell'archivio della parrocchia di San Giovanni alla Vena, piccolo borgo ai piedi del Monte Pisano» della metà del '400 si ritrova un testo in quartine di endecasillabi non incatenate di cui tre quartine sono, e la cosa non può non stupire data la perifericità del luogo, in caratteri greci, mentre il testo è dedicato a un tema lirico-religioso di ispirazione mariana "piuttosto originale". Come osserva Stussi «la registrazione avventizia pare spesso tipica di componimenti poetici non in sintonia con gli indirizzi che hanno presieduto all'allestimento delle prime grandi raccolte» e quindi possono contribuire in modo significativo a ricostruire un quadro magari meno rassicurante, ma più completo della nostra letteratura delle origini. Infine, e questa mi pare sia la ragione intrinseca della segnalazione di questo lavoro in questa sede, ricerche di questo tipo debbono continuare a segnare quella collaborazione tra bibliotecari, archivisti e ricercatori che nell'ambito delle scienze umane è sempre stata di primaria importanza e che nuove e più che legittime motivazioni e aspirazione dei nostri istituti non debbono interrompere, «infatti di norma uno studioso non entra in archivio o in biblioteca per cercare di proposito tracce, ma arriva ad esse in modo fortuito, oppure perché gliele segnala chi ci si è imbattuto nel corso di inchieste altrimenti finalizzate, come quando viene riordinato un fondo, sono catalogati codici, ecc.».
Una prima ragione, alquanto estrinseca che induce a segnalare in questa sede il libro di Stussi, attiene all'origine del libro, che riprende il testo di un seminario tenuto nel 1999 presso la fondazione SPEBLA di San Gimignano nell'ambito del corso "La moderna catalogazione": si tratta quindi di un contributo, che non andrà letto soltanto dal punto di vista strettamente filologico-linguistico, ma anche dal versante bibliotecario, non foss'altro perché depositarie delle "tracce", cui il libro è dedicato, sono per l'appunto le biblioteche e gli archivi.Tracce si intitolava un paragrafo del noto intervento di Armando Petrucci nella Letteratura italiana Einaudi (Storia e geografia. 2, L'età moderna, Torino: 1988, p. 1202 ss.) dedicato alla "Storia e geografia delle culture scritte" e che Stussi richiama in sede di presentazione. Osservava Petrucci che «in Italia, come in Francia, i più antichi testi letterari sono stati tramandati in forma di aggiunte avventizie ed occasionali effettuate in genere sulle carte finali di guardia di codici latini», si tratta di «scritture materiali informali […] che abbiamo convenuto di definire "tracce"». Ancora Petrucci osservava che «un preciso ed analitico censimento dei testi volgari "antiquiores" scritti e tramandati in forme e modi di "scritturalità" non ancora formalizzati non esiste ancora, sia perché la categoria è di difficile (e recente) individuazione, sia perché se ne scoprono continuamente di nuovi». Negli anni trascorsi da quell'intervento si sono susseguite nuove scoperte e proprio Stussi, maestro di studi di storia della lingua italiana, è anche un appassionato indagatore e scopritore di «tracce», cui ha dedicato parecchi interventi in varie sedi, qui documentati nella bibliografia che chiude il volume.
La definizione della tipologia s'è fatta nel tempo più sicura e i caratteri principali sono ora indicati da Petrucci in un intervento del 1999 e ora da Stussi che ne riprende le linee principali, approfondendone alcuni aspetti. Innanzitutto l'inserimento di testi in spazi lasciati vuoti di codici compiutamente scritti appare oramai come un uso diffuso e generalizzato nel Medioevo; principali caratteristiche di questi inserti sono la brevità, l'essere tracciati per lo più da scriventi occasionali e soprattutto l'essere di «diversa natura» rispetto al testo preesistente. L'eterogeneità rispetto al testo principale viene indicato da Stussi come di fondamentale importanza per consentire di discriminare cosa sia traccia e cosa non lo sia: così, alla luce di questo principio, non sono tracce le glosse a un testo, anche episodiche, o le aggiunte integrative a un testo, ad esempio una cronaca, effettuate da diverso scrivente. Un ulteriore aspetto è rappresentato dal «riuso», nel senso che le tracce vengono inserite posteriormente in un codice già scritto, riutilizzandone parti rimaste vuote; da questo punto di vista i palinsesti non appartengono alla categoria delle tracce, perché la scriptio superior si sovrappone ed elimina la scriptio inferior, non gli si affianca come nel caso della traccia e inoltre l'interesse degli studiosi è riferito a quest'ultima e non al testo aggiunto in sovrapposizione. Infine Stussi esclude, si direbbe a ragione, dal concetto di traccia i frammenti (o maculature) di pergamene riusate come coperte di codici, camicie per custodire documenti, rinforzi di legature: anche da questi frammenti si ottengono importanti recuperi testuali, però è evidente che non hanno il carattere di aggiunte e di riuso voluto del testo, si tratta infatti di fogli superstiti al naufragio del documento complessivo di cui in origine erano parte integrante.
Come s'è detto "tracce" sono quasi tutti i monumenti linguistici volgari delle origini, non solo italiani, quali il venerando Indovinello veronese e i tre antichi superstiti ritmi (cassinese, su Sant'Alessio e laurenziano), ma anche in lingua d'oil, in spagnolo, in ladino. Tuttavia negli ultimi anni il ritrovamento di nuove tracce e una rinnovata attenzioni a tracce già segnalate in alcuni casi in cataloghi di fondi di archivi e biblioteche, hanno portato all'emersione e alla pubblicazione di testi poetici duecenteschi, non solo non noti, ma in alcuni casi tali, per antichità e colorito linguistico, da avere «importanti conseguenza sul piano storico-letterario, obbligandoci a ripensare sistemazioni orami canoniche» della nostra poesia delle origini. È il caso della versione non toscanizzata di una canzone di Giacomino Pugliese (Isplendiente stella d'albore), restituita qualche anno fa da una traccia zurighese ove fu trascritta da «una mano databile ai tardi anni Trenta del Duecento» (p. 19) e dell'altrimenti ignota canzone Quando eu stava in le tu' cathene, ritrovata da Stussi stesso (e in questa sede ripubblicata) assieme ad altro breve testo poetico in una pergamena dell'Archivio storico vescovile di Ravenna, ove furono trascritti «alla fine del XII secolo o all'inizio del successivo». Stante le datazioni proposte, la traccia zurighese retrodata di una cinquantina d'anni le testimonianze di testi siciliani, mentre quella ravennate «rappresenta la più antica documentazione di lirica profana in volgare italoromanzo… Tanto basta, e avanza, per porre il problema del rapporto coi Siciliani» con la conseguenza necessità di «verificare la tenuta d'una cronologia passata in giudicato, secondo la quale gli inizi della Scuola si collocano nei primi anni Trenta».
Se non tutte le tracce hanno un peso di tale fatta, pure spesso non mancano di interesse storico, così il più antico serventese caudato semplice della nostra letteratura, pubblicato da Stussi fin dal ù1967, è conservato in un codice Palatino della Nazionale Centrale di Firenze e risale alla metà del Duecento, mentre di circa un trentennio gli è posteriore l'interessante serventese amoroso pratese di recente pubblicato dal Fantappiè e nascosto finora nelle carte di un registro notarile (Nuovi testi pratesi dalle origini al 1320, a cura di Renzo Fantappiè, Firenze: Accademia della Crusca, 2000, vol. 1, p. 21-23). Per contro un sonetto e una ballata conservati entrambi all'archivio di stato di Padova, e pubblicati ancora da Stussi, restituiscono interessanti testimonianze della fortuna della lirica toscana in area padana. Infine, sempre trascegliendo dalla ricca esemplificazione presentata, «alla fine di un registro cartaceo di livelli conservato nell'archivio della parrocchia di San Giovanni alla Vena, piccolo borgo ai piedi del Monte Pisano» della metà del '400 si ritrova un testo in quartine di endecasillabi non incatenate di cui tre quartine sono, e la cosa non può non stupire data la perifericità del luogo, in caratteri greci, mentre il testo è dedicato a un tema lirico-religioso di ispirazione mariana "piuttosto originale". Come osserva Stussi «la registrazione avventizia pare spesso tipica di componimenti poetici non in sintonia con gli indirizzi che hanno presieduto all'allestimento delle prime grandi raccolte» e quindi possono contribuire in modo significativo a ricostruire un quadro magari meno rassicurante, ma più completo della nostra letteratura delle origini. Infine, e questa mi pare sia la ragione intrinseca della segnalazione di questo lavoro in questa sede, ricerche di questo tipo debbono continuare a segnare quella collaborazione tra bibliotecari, archivisti e ricercatori che nell'ambito delle scienze umane è sempre stata di primaria importanza e che nuove e più che legittime motivazioni e aspirazione dei nostri istituti non debbono interrompere, «infatti di norma uno studioso non entra in archivio o in biblioteca per cercare di proposito tracce, ma arriva ad esse in modo fortuito, oppure perché gliele segnala chi ci si è imbattuto nel corso di inchieste altrimenti finalizzate, come quando viene riordinato un fondo, sono catalogati codici, ecc.».
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