Una recensione di Pirati di carta dell'Ufficio studi dell'Associazione italiana editori non può non prescindere da un'analisi critica dei dati d'indagine riportati. Il metodo condotto sia per la rilevazione metodologica e statistica dei dati riportati nel "Quaderno", sia per la lettura e interpretazione degli stessi da parte dell'AIE, risulta scientificamente poco attendibile, per i motivi che si esporranno di seguito. Un breve cammino a ritroso su come è nata quest'indagine è necessario per comprendere il contesto in cui si muove lo studio. Vi è una prima indagine AIE nel dicembre 1994 confluita nel "Quaderno dell'ufficio studi AIE", tradotta anche in inglese per Kopinor nel 1995. Tale indagine mirava a focalizzare la dimensione economica del macrofenomeno della reprografia abusiva effettuata, ai danni degli editori, da copisterie, studi e aziende private e biblioteche.
Due anni dopo l'indagine veniva ripetuta attraverso un campione e una metodologia assai discutibili sia dal punto di vista procedurale sia da quello puramente statistico: un campione di soli undici copy center indagati, localizzati in sei città universitarie, per un arco temporale di una sola settimana. Ciò in vista del convegno “Pirati di carta: dall'uso personale all'abuso collettivo", tenuto a Roma a fine gennaio 1997. Un'indagine quindi frettolosa e metodologicamente non coerente ad applicazioni statistiche che avrebbero dovuto essere rigorose.
Tre anni dopo nasce il testo su cui la presente recensione si basa. Il testo però mantiene inalterato il background della vecchia indagine effettuata nel 1996, ma viene ripetuto per soli due giorni (per sole sei ore giornaliere), in quattordici copy center (tra cui gli stessi undici del 1996), localizzati in sette città universitarie.
Il testo si arricchisce di una parte, decisamente più interessante, sull'editoria italiana, o meglio sull'industria editoriale dei contenuti nel nostro paese e sugli attori che vi ruotano attorno.
Secondo quanto dichiarato nel testo, nel 1999 risultavano censite nel nostro paese 2486 copisterie, pari a un incremento del 221,5% in nove anni. Da tale numero restano esclusi le cartolerie e i negozi per gli uffici che offrono servizio di fotocopiatura. Tale incremento è dovuto all'innovazione tecnologica degli strumenti per la copiatura ma anche alle nuove forme di servizio autogestite (self-service). Nel testo si afferma che tale crescita è stata sensibilmente maggiore rispetto a quella delle librerie, con un incremento "ben più celere rispetto a quanto non avvenuto per i punti vendita trattanti il libro, e le librerie che tra il '91 e il '99 sono aumentate del 31,7%". Relativamente a questo aspetto non si tiene conto di due fattori, che coinvolgono entrambi "l'attuale sistema di mercato", il primo legato alla minor crescita delle librerie, il secondo legato alla maggior crescita delle copisterie.
È noto infatti come il fenomeno della vendita/svendita di libri all'interno degli ipermercati abbia di fatto messo in crisi la classica libreria non di tipo megastore. Non è affatto provato che il proliferare di copisterie e il miglioramento della tecnologia reprografica comporti una minor vendita di libri. Chi ama il libro quale oggetto da toccare, da comperare, da possedere, non lo fotocopia. C'è da dire purtroppo che vi è un fenomeno ben più grave che è quello dell'appiattimento culturale generale a livello di massa. La maggior parte di ciò che si pubblica da un po' di anni ad oggi è orientata ad un mercato di massa, più vicino ad offerte di prodotti da ipermercato piuttosto che a contenuti di buon livello culturale offerti dalle librerie specializzate.
Per citare le teorie di Wilfredo Pareto, se parliamo di "fenomeni di mercato" non si può escludere nemmeno il fatto che comunque 2486 copy center in Italia creano un mercato "produttivo" di lavoro (si stimano oltre 5000 operatori nel settore escluse le frange di mercato citate sopra) ed economico (oltre 571 miliardi di lire) di notevole rilevanza che incide su tutto il sistema produttivo.
Se poi andiamo ad aggiungere il dato, sempre riportato nell'indagine AIE, secondo cui solo nel 1999 si sono vendute 231.200 nuove macchine fotocopiatrici, raggiungendo un parco macchine fotocopiatrici che enumera quasi due milioni di macchine installate, si può ben capire come, all'interno del mercato produttivo, non si possa non tener conto di tale settore produttivo che ha immesso in commercio una gamma di oltre 460 modelli di macchine.
Utilizzare quindi le teorie economiche e i modelli proposti in tale contesto potrebbe essere una valida soluzione alternativa ad azioni sanzionatorie applicate dal contesto normativo che non arginano di certo il fenomeno della pirateria.
Se poi andiamo a vedere la dislocazione dei "corpi di reato", cioè delle macchine fotocopiatrici, come descritto nello stesso rapporto AIE, i dati parlano da soli.
Nei 2500 copy center censiti in Italia vi sono in media sei macchine, per un massimo di 16.250 macchine presenti in tali esercizi sui due milioni di installazioni totali pari solo ad uno 0,7%. Se teniamo conto che la maggior parte dei copy center gravita attorno alle sedi universitarie, come dichiarato nel rapporto, personalmente mi pare che tale dato non sia preoccupante. Il monitoraggio effettuato sulle scuole italiane in relazione alla presenza di fotocopiatrici rileva che il 90% delle scuole italiane possiede una o due macchine fotocopiatrici, per un totale di 35.000 installazioni, pari a uno scarso 2% sul totale. Nessuno può affermare che la scuola italiana sia sede di pirataggio reprografico solo perché nelle scuole italiane esiste una macchina fotocopiatrice.
Sempre nel rapporto si afferma che le macchine fotocopiatrici nelle biblioteche italiane raggiungono appena le 4000 installazioni per uno scarsissimo 0,02%.
Dove sono quindi tutte le restanti installazioni di "corpi di reato" su cui gravita tutto il rapporto AIE? Il 97% si trova all'interno di studi professionali ed enti pubblici. È facile comprendere come in tali settori si fotocopino soprattutto documenti di lavoro ed atti interni, e che tali attività non abbiano nulla a che fare con opere protette o tutelate dalla legge.
E veniamo alla produzione del libro in Italia: nel rapporto si dice che nel 1998 sono stati pubblicati 52.363 titoli, di cui 33.233 prime edizioni, per un totale di 282,8 milioni di pezzi stampati con una tiratura media di 5400 copie. Si assiste ad una costante diminuzione, non tanto dei titoli pubblicati – che sono invece, seppur minimamente, in incremento – ma del numero di copie stampate, con un calo del 5,3% (1998 rispetto al 1997).
Le copie stampate rappresentano per il 65% il settore "novità" di tutti i volumi immessi nel mercato librario, mentre risulta in netto calo la tiratura delle ristampe e delle riedizioni con decremento assai significativo (–17,8%).
Ad una lettura più attenta di questo fenomeno complesso e articolato, che va interpretato come una risposta più attenta ai bisogni dei lettori da parte dell'editoria italiana, ciò che emerge è il modo diverso in cui si sta muovendo il mercato del libro. Alla grossa fetta delle "novità" rivolta a un mercato di massa meno sofisticato si affiancano settori parcellizzati (per ora ancora in numero modesto) per nicchie di mercato particolari. Informazione e contenuti editoriali vengono offerti in modo più strutturato attraverso la distribuzione di un maggior numero di titoli al fine di poter soddisfare le necessità di conoscenza di fasce di utenza più specializzate. A mio avviso molta strada è ancora da percorrere, la tecnica del print on demand potrebbe offrire valide soluzioni con notevole abbattimento di costi e offerte di contenuti meglio distribuiti (maggiore disponibilità di titoli per basse tirature).
In ogni caso, in relazione al fattore clusterizzazione della domanda, abbiamo un rapporto titoli/abitanti che colloca il nostro paese al dodicesimo posto in Europa.
All'interno della produzione libraria è da tenere in considerazione anche quella fetta di materiale definito come "sistema di prodotto", ovvero i multimediali. Tali prodotti si presentano su supporti informatici o audiovideomagnetici come prodotto autonomo o spesso allegato al cartaceo. Nel triennio 1995-1998 si è registrata una migrazione di contenuti dal supporto floppy disk a quello multimediale di oltre la metà di titoli, arrivando a fine 1998 a toccare quasi 2000 prodotti, quasi tutti rivolti al settore educativo scolastico e formativo. In tale settore i dieci maggiori editori scolastici italiani hanno prodotto la metà dei titoli immessi nel mercato dell'editoria scolastica, spesso con offerte multimediali disponibili anche dal proprio sito Web.
Altro dato interessante è la struttura dei costi che ricade sulla distribuzione del prezzo medio per pagina dei libri e sulla composizione media del prezzo di copertina di un libro.
Come dichiarato nel rapporto AIE, il costo medio di un libro si aggira attorno alle 15/20.000 lire. Va detto però che, recentemente, grazie alla produzione di numerose edizioni tascabili, molti volumi sono di dimensioni ridotte e comunque si aggirano attorno a poco più di cento pagine. Il costo medio per pagina si attesta attorno alle 202 lire, di cui solo 18 lire si riferiscono al processo di stampa e confezionamento. AIE riporta un confronto con il prezzo di una fotocopia dello stesso testo, attuando un paragone tra le due fasi "(ri)produttive omogenee": nella migliore delle ipotesi il costo sostenuto dall'utente in un copy center è di 60 lire a pagina, per una qualità decisamente più bassa rispetto alla classica stampa che costa 18 lire. Anche qui, la tecnica del print on demand comporrebbe tali fratture.
Andiamo ora ad analizzare la composizione media del prezzo di copertina di un libro, tenendo conto che se il costo medio per pagina dichiarato è di L. 202 la composizione che segue deve sempre essere tenuta in considerazione per qualsiasi tipo di analisi.
Il 52% dei costi di copertina è rappresentato dai costi di distribuzione e di promozione, che comprendono la gestione degli ordini, le spese relative all'esercizio commerciale e, per ultimo, la distribuzione fisica del libro. Di questo 52%, il 30% va alla libreria, il 6% per attività di promozione e il 16% per la distribuzione fisica delle copie. Inoltre, va considerato il 4% per l'assolvimento dell'IVA.
Il restante 44% si riferisce alle spese sostenute dalla casa editrice che, calcolate sul prezzo totale del 100%, sono così composte: per spese di carta e materie prime poco più del 3,5%; per spese di fotocomposizione stampa e legatura quasi l'8,5%; un altro 8,5% per il personale; per pubblicità comprensiva di depliant, cataloghi e omaggi vari quasi l'1,5%; i costi di gestione dei locali incidono per un altro 1,5%; spese commerciali per trasporti e viaggi meno dell'1,5%; ammortamento immobili e costi fissi poco più del 4%; oneri finanziari 3%; il 6% si riferisce ai costi di produzione e sviluppo di contenuto. La produzione è in relazione all'autore, mentre lo sviluppo si riferisce invece all'attività redazionale e quindi all'interno di questo 6% abbiamo uno scarso 4% per il diritto d'autore (royalties) e un 2% per l'attività editoriale. A questo 6% però si deve aggiungere un ulteriore 3% per collaborazioni editoriali e grafiche. Totale 41%. Il 3% che manca è il margine di guadagno dichiarato dalle case editrici.
La composizione del prezzo così strutturata e riportata nel testo AIE è stata ricavata dai bilanci del 1993 di dieci case editrici italiane: Il mulino, CEDAM, Giuffrè, Einaudi, Franco Angeli, Nuova Italia, Piccin, McGraw-Hill, Bollati-Boringhieri, Laterza.
Ad una lettura più attenta della composizione del prezzo di copertina risulta subito evidente come il costo per il diritti d'autore incida per nemmeno il 4%.
Il capitolo cinque dell'indagine AIE, Quanto si fotocopia in biblioteca, riguarda in particolar modo l'attività reprografica nelle biblioteche. AIE lamenta la mancanza di indagini a riguardo, indagini che l'AIE ritiene (erroneamente) dovrebbero essere condotte dall'Associazione italiana biblioteche. Il capitolo si basa quindi sull'unica, lacunosa e frammentaria indagine esistente, che risale a quasi dieci anni fa, condotta dall'ICCU.
L'AIE traccia delle conclusioni alquanto discutibili e comunque dissonanti rispetto ai dati riportati nelle tabelle dello stesso capitolo. Si dice che il 60% delle fotocopie viene effettuato nelle biblioteche universitarie e un 15% in quelle di pubblica lettura, nelle statali un 20% e il restante 5% in biblioteche di altre strutture. Di qui l'AIE traccia deliranti percorsi dove ipotizza 179 milioni di pagine di libri fotocopiati, dimenticando che nelle biblioteche non si trova solo materiale protetto, ma anche materiale fuori tutela, documenti di fonte pubblica, materiale i cui diritti sono scaduti e così via. Non solo, ma va detto che nelle biblioteche di università si trova materiale scientifico su cui i "famosi" diritti d'autore non esistono. È noto infatti che moltissima parte della produzione intellettuale dei ricercatori delle università è ceduta gratis agli editori (soprattutto esteri) e perciò nessun diritto d'autore viene pagato agli autori da parte degli editori. Tali produzioni scientifiche che compongono la maggior parte del patrimonio delle biblioteche di università viene confezionato in costosissimi periodici acquistati a prezzi maggiorati dalle biblioteche rispetto al prezzo di un abbonamento ordinario. Questo materiale, nelle biblioteche universitarie di ambito scientifico, può arrivare a coprire fino al 90% del patrimonio presente.
Se poi vogliamo parlare di testi monografici, va anche detto come il semplice libro posto nello scaffale di una biblioteca sia un ottimo strumento di "promozione del libro stesso". Per ogni libro presente in biblioteca numerose sono le copie vendute nelle librerie.
Non voler riconoscere il ruolo che le biblioteche svolgono nella promozione culturale del libro e, più in generale dei contenuti, significa avere un'idea non chiara del diritto di accesso all'informazione quale diritto fondamentale dell'uomo.
Antonella De Robbio
Biblioteca del Seminario matematico, Università di Padova