La laurea in biblioteconomia:
finalità e prospettive dei nuovi ordinamenti universitari

di Alberto Petrucciani


Il titolo di questo contributo allude a uno dei traguardi che possiamo dire da sempre accarezzati dai bibliotecari italiani: vedere anche in Italia la formazione professionale iniziale dei bibliotecari affidata a uno specifico corso di studi universitari, alla pari con quelli che da tempo preparano alle altre professioni intellettuali (a partire da quelle più riconosciute, l'avvocato e l'ingegnere, l'architetto e il medico). È in questa prospettiva che mi è sembrata utile una riflessione sui nuovi ordinamenti didattici che si troverà di fronte nel prossimo autunno chi si iscrive all'Università. Non dico "i giovani" perché, anche se questi costituiscono ogni anno la grande maggioranza dei nuovi iscritti, la formazione universitaria è oggi sempre più concepita – soprattutto nei paesi più avanzati – come un'offerta formativa indirizzata anche a chi è meno giovane e a chi già lavora (i mature students da tempo in primo piano nella programmazione didattica anglosassone). I nuovi ordinamenti dovrebbero facilitare, a mio parere, questa funzione di "formazione lungo tutto l'arco della vita", importante sia per colmare lacune che sono ancora molto diffuse sia, soprattutto, come stimolo e strumento per funzioni professionali via via più impegnative e di maggiore responsabilità.

In questi mesi, completata l'emanazione delle nuove norme nazionali, le università stanno provvedendo a riformulare i propri ordinamenti. Solo in autunno, perciò, si potrà avere un quadro completo e definito delle concrete offerte didattiche, mentre allo stato attuale la riflessione si deve fermare alle potenzialità e ai possibili rischi che i nuovi ordinamenti aprono.

Va detto subito che la riforma in atto è assai più significativa e pervasiva di quella precedente1, che si caratterizzava soprattutto per la poco felice introduzione di un corso più breve della laurea tradizionale e in alternativa con quella, il diploma universitario. Alla riforma del 1990 fa quindi capo l'introduzione abbastanza stentata, anche nel nostro campo, di un diploma per Operatori dei beni culturali.

Nella prospettiva qui adottata, l'ultimo traguardo raggiunto dalla "lunga marcia" della laurea in biblioteconomia rimane rappresentato piuttosto dai decreti istitutivi della laurea in Conservazione dei beni culturali, con un indirizzo archivistico-librario, creata nel 1978-1979 e riformata nel 1983, inizialmente nella sola sede di Udine, dal 1987 anche nell'Università della Tuscia, e finalmente estesa con il piano di sviluppo dell'università 1991-1993 a una decina di atenei su tutto il territorio nazionale2. Le critiche avanzate rispetto all'infelice denominazione del corso e a parte dei suoi contenuti sono ben note. Indubitabili sono però, a mio avviso, tre elementi positivi, anzi di storica novità per il nostro paese:


La riforma in atto costituisce, a mio parere, un altro importante passo in avanti, forse il più risolutivo, anche se con qualche rischio di cui è opportuno essere ben consapevoli.

Di una nuova riforma si parlava già da qualche anno – nonostante fosse ancora in corso e lontano dalla conclusione il ciclo di revisione delle singole lauree a seguito della legge del 1990 – soprattutto per l'opportunità di introdurre anche nel campo didattico i principi di autonomia delle università definiti con la legge 9 n. 168 del maggio 1989 estesi anche a questo campo secondo le disposizioni degli art. 95 e seguenti della cosiddetta "Bassanini 2" (legge n. 127 del 15 maggio 1997). In un dibattito già da tempo avviato ma rimasto in sostanza impastoiato nei nodi non risolti con la riforma del 1990, il punto di svolta si deve riconoscere a mio parere nella "dichiarazione della Sorbona", ossia nel testo diffuso da una sede assai poco formale, l'incontro tenuto nel 1998, a Parigi, tra i ministri dell'università dei maggiori paesi europei (l'Italia, rappresentata allora da Luigi Berlinguer, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna)4.

Con questa dichiarazione anche l'Italia accettava un'impostazione basata su due cicli universitari fondamentali, rovesciando in sostanza la linea che aveva prevalso nella riforma del 1990: allora i sostenitori dei due cicli universitari "in serie", uno a seguito dell'altro, avevano perduto rispetto a chi sosteneva l'introduzione, accanto alla laurea tradizionale, di un percorso più breve "in parallelo", il diploma universitario. Alle radici della dichiarazione della Sorbona dobbiamo mettere anche l'ormai consolidata esperienza di circolazione europea degli studenti universitari, attraverso i programmi Erasmus e Socrates. In particolare, attraverso l'ECTS (European Credit Transfer Scheme5), era stato definito e testato un sistema di equivalenze non solo dei diversi titoli di studio, ma delle loro singole componenti (così da consentire a uno studente italiano, per esempio, di sostenere alcuni esami all'estero, o viceversa), che costituisce evidentemente il modello del nostro nuovo ordinamento. Nell'ambito dell'ECTS, inoltre, la tradizionale laurea italiana era stata riconosciuta equivalente, per durata e contenuti, al livello del Master anglosassone, pur essendo quest'ultimo un secondo ciclo di studi universitari. I principi della "dichiarazione della Sorbona" sono poi stati ribaditi e precisati l'anno successivo con la dichiarazione congiunta dei ministri di 29 paesi europei sullo "spazio europeo dell'istruzione superiore"6.

È poi andato abbastanza spedito – compatibilmente con l'indispensabile consultazione formale o informale delle parti interessate, con i numerosi pareri richiesti per obbligo o per prassi (Consiglio universitario nazionale e Consiglio nazionale degli studenti universitari, Conferenza dei rettori delle università italiane, Commissioni parlamentari) e con l'intensa attività lobbistica dei gruppi accademici – il percorso successivo, con l'emanazione di una serie di provvedimenti:

Il nuovo ordinamento prevede quindi due cicli fondamentali: la laurea, triennale, e a seguire la laurea specialistica, biennale. Credo che non debba sfuggire il forte significato della scelta, combattuta e incerta fino all'ultimo, del termine "laurea" per il primo livello: come sul piano normativo si indica che essa dovrebbe essere richiesta ordinariamente nelle situazioni in cui si è finora richiesta la laurea tradizionale (quadriennale o quinquennale, salvo per la medicina), su quello linguistico si cerca di porre sul primo ciclo l'accento e il peso che il termine "laurea" ha da sempre in Italia. La nuova laurea triennale non è quindi un diploma (detto "laurea breve" solo nel linguaggio giornalistico). Essa darà diritto però al titolo di "laureato", non di "dottore", restando quest'ultimo riservato a chi consegue la laurea specialistica (pur sempre in contrasto, del resto, con la prassi internazionale prevalente, in cui il titolo di "dottore" si riferisce al dottorato di ricerca).

La laurea specialistica, secondo le nuove norme, dovrebbe collocarsi al di sopra delle lauree attuali, sostanzialmente assorbendo gli attuali diplomi di specializzazione (salvo nel caso della medicina), anche se sono in atto (e hanno anzi già marcato una prima vittoria) forti spinte lobbistiche al mantenimento delle scuole di specializzazione, a numero chiuso e quindi tradizionalmente fonte di "rendite di posizione" sul mercato del lavoro. Non viene innovato, infine, il dottorato di ricerca, che è comunque titolo puramente accademico e non professionale. In Italia, come si sa, l'ammissione al dottorato è stata sempre limitata a uno sparuto numero chiuso, pari a quello delle borse di studio concesse: la recente riforma7 ha sensatamente previsto un certo ampliamento (fino al doppio del numero delle borse di studio offerte), ma siamo ancora lontani dalla libera accessibilità di questo corso di studi, che è la norma negli altri paesi (e, di conseguenza, costituisce un'interessante opportunità anche per bibliotecari in carriera che intendano arricchire la propria formazione con un'esperienza approfondita di ricerca).

Complessivamente, la riforma riflette quindi un forte e positivo impegno a ridurre la durata degli studi, almeno in termini reali (che sono in media quasi doppi rispetto alla durata legale dei corsi), e ad offrire traguardi più vicini e direttamente spendibili, anche nella prospettiva della formazione lungo tutto l'arco della vita.

Altra innovazione significativa, che recepisce l'esperienza dell'ECTS, è il sistema dei crediti, ossia un calcolo uniforme delle diverse componenti di un corso di studio, in termini di unità di tempo. Il percorso di studi viene quantificato in circa 1500 ore annue (150 ore per 10 mesi), che lo studente dovrebbe appunto dedicare ad esso, in media, per completarlo con successo e nei tempi previsti. L'impegno annuo complessivo viene convenzionalmente fissato a 60 crediti, pari quindi a 25 ore ciascuno, riservate almeno per metà allo studio individuale. Invece del tradizionale computo del numero degli esami da sostenere, a cui si aggiungeva la tesi e spesso altre attività collaterali, ora il percorso didattico deve comprendere tutte le attività da svolgere, appropriatamente quantificate, entro il tetto dei 60 crediti annui. In pratica, questo ha significato riconoscere e riservare uno spazio specifico alle attività diverse dal tradizionale corso con esame finale: la tesi o altro elaborato conclusivo o prova finale, l'acquisizione di capacità linguistiche e informatiche, eventuali tirocini o laboratori ecc. Ogni attività, quindi, può comportare (normalmente attraverso una forma di verifica che però non sarà sempre un esame tradizionale) l'acquisizione di crediti, unità più piccole del tradizionale esame e quindi più facilmente sommabili, combinabili, riutilizzabili in caso di cambiamento di percorso. Ma, ad evitare eccessivi entusiasmi, è il caso di notare che, per quanto si può oggi prevedere, i percorsi di studio rimarranno costituiti per la grande maggioranza dei crediti (circa l'80%) dalla struttura tradizionale di corsi in singole discipline e relativi esami.

Tra le motivazioni fondamentali della riforma, come si è detto, c'è l'estensione dei principi di autonomia degli atenei anche al piano didattico: le università possono quindi definire autonomamente le proprie offerte didattiche, entro i <<criteri generali>> (così si esprime la "Bassanini 2") stabiliti a livello nazionale. In linea di principio, la scelta è stata quella di continuare a garantire un valore legale unico delle lauree e delle lauree specialistiche, definendo a livello nazionale un ventaglio di percorsi (42 "classi di lauree" e 104 "classi di lauree specialistiche", a cui sono da aggiungere provvedimenti separati per il settore della sanità e quello della difesa e sicurezza). Per questi percorsi i decreti ministeriali sopra citati indicano un quadro di contenuti uniformi obbligatori, pari a circa due terzi del totale dei crediti. Si parla di "classi di lauree" perché si prevede, come vedremo, che i singoli atenei possano stabilire autonomamente le denominazioni dei corsi che offrono, che saranno però legalmente equivalenti in quanto istituiti nel rispetto delle regole di una delle classi nazionali.

Le classi nazionali, soprattutto al primo livello, riprendono sostanzialmente le lauree attuali, anche se quasi sempre ne modificano la denominazione e il profilo dei contenuti. Fra le lauree triennali, la nuova classe 13, Scienze dei beni culturali, è in dichiarata continuità, per molti aspetti, con la vecchia laurea in Conservazione dei beni culturali; fra le pochissime classi nuove una, molto discussa, riguarda le Tecnologie per la conservazione e il restauro dei beni culturali (classe 41), ma ha per noi un interesse abbastanza marginale.

Maggiormente innovativo è sicuramente il quadro delle lauree specialistiche. La classe di riferimento per il nostro campo è la 5/S, Archivistica e biblioteconomia: al livello del secondo ciclo, quindi, si definisce per la prima volta un titolo specifico che si riferisce esplicitamente al nostro campo, anche se accomunato a quello degli archivi. Altre classi di lauree specialistiche possono presentare interessanti affinità con il nostro campo (per esempio la 11/S Conservazione dei beni scientifici e della civiltà industriale, la 13/S Editoria, comunicazione multimediale e giornalismo, la 24/S Informatica per le discipline umanistiche, la 51/S Musicologia e beni musicali, la 100/S Tecniche e metodi per la società dell'informazione) ma si rivolgono in effetti in direzioni molto differenti.

Al di là delle denominazioni, di valore assai relativo, l'analisi dei contenuti non è molto agevole. Contrariamente a quanto si potrebbe ingenuamente pensare, la definizione dei contenuti minimi uniformi a livello nazionale non è avvenuta attraverso l'individuazione di un nocciolo centrale di conoscenze specifiche indispensabili, bensì attraverso ampie cornici che indicano un ventaglio di vasti ambiti disciplinari, anche molto lontani fra loro, che devono in qualche misura concorrere al curriculum complessivo. Si tratta di un modello normativo non semplice da comprendere ed analizzare, ma su cui poggeranno anche gli ordinamenti dei singoli atenei e di cui è quindi utile richiamare i presupposti fondamentali. In primo luogo, sono state ormai completamente delegificate le singole discipline d'insegnamento, che possono essere liberamente denominate nei singoli atenei e nei singoli corsi ma devono essere comunque inquadrate in un "settore scientifico-disciplinare" definito a livello nazionale8. Per esempio, tutte le discipline biblioteconomiche e bibliografiche (compresa la storia del libro) sono confluite con quelle archivistiche nel settore denominato M-STO/08, quelle paleografiche e codicologiche nel settore M-STO/09 ecc. Le nuove norme nazionali menzionano esclusivamente settori disciplinari, mai singole materie, e anzi sono sempre formulate a livello di "ambiti" costituiti da almeno due settori. Inoltre, nei casi che ci riguardano, i contenuti minimi obbligatori sono definiti quantitativamente solo per l'insieme di più "ambiti", ciascuno costituito da più "settori". Possiamo aiutarci con un esempio: nella nuova classe di laurea in Scienze dei beni culturali sarà ancora indispensabile, come nel vecchio ordinamento di Conservazione dei beni culturali, un apporto di aree ritenute utili alla formazione di base, identificate nei campi dell'italianistica e delle discipline storiche (con l'aggiunta quanto meno curiosa delle discipline dell'ambiente e della natura), per un totale complessivo non inferiore ai 20 crediti. Saranno quindi i singoli atenei a definire quali insegnamenti impartire e richiedere, per quanti crediti, purché ciascuno di questi ambiti sia rappresentato da almeno un credito e siano rispettati i totali minimi. Almeno in teoria, una università potrebbe richiedere un esame biennale di "Storia moderna" e un'altra un solo credito, pari a un seminario di un paio di giorni, in "Storia dei paesi islamici" o "Storia della scienza e delle tecniche". In pratica, le scelte degli atenei saranno probabilmente abbastanza omogenee e più o meno orientate al buon senso, ma è bene comprendere il nuovo meccanismo normativo per poter poi "leggere" le nuove offerte didattiche.

Sulla base dei decreti ministeriali citati le università hanno in questi mesi redatto, sottoposto ai propri organi di governo e quindi al Ministero i nuovi ordinamenti didattici. Gli esiti non sono ancora noti ma, prima di tornare ai curricula che più direttamente ci riguardano, può essere utile ripercorrere le scelte che esse stanno compiendo.

Prima decisione è ovviamente quella di cosa offrire, ossia se predisporre offerte (corsi di laurea o di laurea specialistica) in tutte le classi stabilite a livello nazionale, o solo in una parte di esse. È una scelta delicata, su cui è bene richiamare l'attenzione per i forti rischi che comporta. Offrire corsi in più classi significa, ovviamente, attrarre studenti, e ancor più non perdere potenziali iscritti, residenti nel proprio bacino di riferimento, che siano interessati a un corso specifico: obiettivi molto importanti per gli atenei che sono già di fatto in notevole competizione, soprattutto per i finanziamenti statali e non, spesso con l'impiego del numero di iscritti o di immatricolati come indicatore. D'altra parte, come si è visto, le "tabelle" nazionali sono estremamente aperte e francamente generiche, e di conseguenza non esistono reali impedimenti – salvo il senso di responsabilità e quello del ridicolo, si potrebbe dire – all'apertura di una quantità di corsi di laurea senza contenuti effettivamente specifici e senza adeguate risorse, soprattutto umane, di docenti, ma anche di attrezzature, di locali, di raccolte bibliografiche ecc.

L'invito a guardare con molta prudenza ai contenuti e alle risorse effettive vale, a fortiori, per le denominazioni dei corsi di laurea. Come si è detto, il decreto nazionale fissa le "classi", indicate da un numero – a cui per mera comodità è affiancata una denominazione – ma le università possono stabilire qualsiasi denominazione di loro gradimento. Esse possono inoltre istituire più corsi entro una stessa classe. Ossia, per esempio, istituire una laurea in Conservazione dei beni culturali (per gli amanti della vecchia denominazione), oppure, a fianco o in alternativa, una laurea in Biblioteconomia (e magari altre in Archeologia, Storia dell'arte, Archivistica), e magari persino una laurea in Biblioteconomia multimediale, tutte entro la medesima classe 13, purché ovviamente non in contrasto con i (labili) contorni del decreto ministeriale. Queste lauree, però, resteranno legalmente equivalenti e potranno avere gli stessi contenuti (ricchi o poveri, generali o specializzati che siano).

È prevedibile, quindi, una notevole competizione che si potrebbe dire di marketing, con forti rischi in mancanza sia di verifiche sui contenuti e sulle risorse, sia di scaltrezza dei destinatari: è difficile che i giovani conoscano bene le "regole del gioco" e abbiano gli strumenti per guardare oltre le etichette di quanto viene loro offerto. Solo alcune università si stanno dando una autoregolamentazione: nell'Università di Pisa, per esempio, sono stati definiti degli standard di garanzia abbastanza rigorosi, che prevedono l'attivazione di un corso solo con un numero minimo di docenti di ruolo ad esso primariamente dedicati (15 per una laurea e 10 per una laurea specialistica) e un numero minimo di immatricolati all'anno. Al di là dei rischi di proliferazione di "scatole cinesi" e "scatole vuote", stanno emergendo comunque orientamenti diversi riguardo all'opportunità di utilizzare ampiamente le potenzialità di innovazione "linguistica" dei nuovi ordinamenti. Per esempio, il corso di laurea di Pisa, a cui appartengo, ha optato per una linea di semplicità e continuità, stabilendo di adottare letteralmente, almeno in partenza, le denominazioni ministeriali dei corsi di studio, attivando quindi al primo livello un corso di laurea in Scienze dei beni culturali suddiviso in quattro indirizzi con contenuti specifici molto marcati, uno dei quali di carattere Biblioteconomico e bibliografico; allo stesso modo si prevede di mantenere, nella maggioranza dei casi, le denominazioni attuali degli insegnamenti, correggendo solo quelle che non corrispondono alla terminologia accettata nel campo specifico. In altri atenei, invece, si prevede di attivare più corsi di laurea corrispondenti agli attuali indirizzi, pur se legalmente equivalenti, o di rinnovare radicalmente le denominazioni degli insegnamenti. Si tratta di differenze forse più formali che sostanziali, in quanto sia con un unico corso di laurea articolato in indirizzi ben caratterizzati sia con più corsi di laurea nella stessa classe si mantiene, in sostanza, il quadro attuale che prevede percorsi formativi distinti per le diverse figure professionali (bibliotecari, archivisti, archeologi e storici dell'arte), pur sotto un "ombrello" comune. Con il nuovo ordinamento diventa possibile, almeno in teoria, offrire anche un percorso unico o multidisciplinare, che comprenda competenze in tutti e quattro in settori: una strada a mio parere impraticabile sia sul piano dei contenuti che dal punto di vista degli sbocchi occupazionali, mentre può essere positiva la possibilità di integrare un percorso formativo specifico (per esempio in campo biblioteconomico) con qualche apporto, soprattutto metodologico, di altri settori.

Più complessa per alcuni aspetti sarà la definizione delle nuove lauree specialistiche, perché anche in questo caso le norme nazionali non hanno adottato l'approccio a prima vista più semplice, quello di definire i contenuti minimi obbligatori del biennio, ma sono state formulate sulla base del complesso dei 300 crediti che lo studente dovrà aver conseguito al termine dei due cicli (tre più due anni). Di conseguenza non c'è, o almeno può non esserci, un contenuto proprio e specifico del biennio: quello che conta è che lo studente abbia conseguito, per concludere gli studi, i crediti richiesti dall'ordinamento del singolo corso, al di là della distinzione fra crediti conseguiti nel triennio di provenienza e crediti conseguiti nel biennio stesso. Questa apparente flessibilità comporta anche una meno evidente rigidità: infatti gli studenti che provengono da un triennio diverso da quello di riferimento per la singola laurea specialistica si troveranno, al conto dei crediti richiesti per raggiungere i 300 complessivi, a poter riutilizzare solo una parte dei 180 di cui già dispongono. Il biennio, quindi, potrebbe allungarsi a tre anni, se non più, per chi si indirizzi solo "in seconda battuta" verso un percorso di studio professionalizzante, dopo un'alra laurea triennale (o anche dopo un'altra laurea specialistica).

Si tratta di una problematica tipica del nostro campo, spesso scelto non al principio degli studi universitari ma dopo che si è già conseguito un titolo, per esempio una laurea in lettere o in storia. Non sarà facile agli atenei, sia nella definizione degli ordinamenti sia nella pratica didattica, contemperare la legittima esigenza di approfondimento e specializzazione di chi proviene da una laurea triennale con forti contenuti biblioteconomici e quella di chi, dopo studi umanistici in altri ambiti, inizia da zero una formazione biblioteconomica a livello di laurea specialistica. In questo secondo caso andrà sicuramente richiesto uno sforzo supplementare, che però non può diventare proibitivo, altrimenti si chiuderebbe di fatto un importante canale di reclutamento. Non si può trascurare, però, neanche il rischio opposto: se nei 300 crediti della laurea specialistica si limitano i contenuti specifici, per favorire l'accesso di studenti provenienti da altri trienni, si rischia che quelli che provengono da un triennio con un buon nocciolo biblioteconomico si trovino, nel biennio, costretti non ad approfondire le loro competenze ma ad ampliare il bagaglio di formazione umanistica di base.

Non è qui possibile soffermarsi in dettaglio sulle innovazioni nei contenuti, confrontando le nuove tabelle (formulate del resto, come si è visto, a livello di vasti ambiti scientifico-disciplinari) con quelle tradizionali della laurea in Conservazione dei beni culturali (formulate a livello di singole discipline impartite).

Si può notare intanto, dal punto di vista quantitativo, che l'impegno complessivo richiesto per i cinque anni sarà all'incirca pari a quello della laurea attuale in Conservazione dei beni culturali, forse anche lievemente inferiore, e comunque più flessibile. Della laurea attuale in Conservazione dei beni culturali, infatti, da tempo sia gli atenei che gli studenti avevano richiesto la quinquennalizzazione, considerando l'elevato numero degli esami da sostenere (24 annualità in non meno di 25 insegnamenti distinti, rispetto per esempio ai 19 esami delle lauree in Filosofia e in Lingue e ai 21 di quelle in Lettere e in Storia) e l'esigenza di attività pratiche e di tirocinio. Da questo punto di vista, quindi, gli studenti già iscritti che intendano passare al nuovo ordinamento dovrebbero trovarsi agevolati; data l'ampia facoltà di riconoscere in "nuovi" crediti gli studi già compiuti, si può prevedere che i nuovi titoli saranno largamente rilasciati fin dal prossimo anno accademico.

Riguardo ai contenuti disciplinari, dovrebbe venire alleggerita e soprattutto risultare meno vincolata la componente di formazione umanistica di base, per intendersi "liceale" (italiano, storia, un minimo di latino ecc.), rimangono le qualificanti componenti integrative informatiche (ma sconsideratamente ridotte nel triennio rispetto ad oggi, per introdurre una poco pertinente componente di scienze pure) e giuridiche, viene introdotta nel biennio, come da tempo richiesto, una componente economico-gestionale. I nuovi percorsi sono completati dall'acquisizione di capacità linguistiche (ma le norme ministeriali includono una sola lingua straniera obbligatoria, contro le due già previste in Conservazione dei beni culturali e che probabilmente verranno mantenute da molti atenei), da tirocini o stages (che però saranno i singoli atenei a definire obbligatori oppure facoltativi) e dalle prove finali di triennio e biennio, quest'ultima con il profilo di una tesi tradizionale, l'altra consistente in una forma di verifica molto meno impegnativa, da definire ateneo per ateneo.

Nel complesso, l'avvertimento fondamentale da dare è quello di guardare accuratamente ai contenuti offerti da ciascun ateneo e da ciascun corso, in primo luogo alle discipline previste, poi naturalmente ai relativi programmi (che nei nuovi ordinamenti dovrebbero specificare con precisione le conoscenze e abilità da conseguire), con la consapevolezza che i nomi non corrispondono necessariamente alle cose e che, se le offerte dei singoli atenei si assomiglieranno in molte componenti marginali (obbligate per conformità ai decreti ministeriali), potranno poi variare moltissimo nel rilievo attribuito alla componente più strettamente biblioteconomica e nel profilo dei relativi insegnamenti.

L'ultima, ma importantissima, domanda da porsi riguarda il rapporto fra i nuovi titoli di studio e il lavoro. In linea di principio, la laurea triennale dovrebbe dare accesso alle posizioni per le quali è attualmente richiesta la "vecchia" laurea, quella specialistica dove sono stati fin qui richiesti diplomi di specializzazione o comunque un percorso formativo maggiore. Questo principio è stato recentemente ribadito, per esempio, dalla circolare 27 dicembre 2000 del Dipartimento per la funzione pubblica (n. 6350/4.7). Tuttavia al di là delle buone intenzioni del legislatore, rivolte a ridurre la durata degli studi e offrire titoli spendibili al livello delle conoscenze effettivamente utili dal punto di vista professionale, si può prevedere a mio avviso un "assestamento" in cui questo principio si combini con la fisiologica tendenza a richiedere, in una società avanzata, livelli di formazione sempre più elevati e più specifici.

In questa ottica personalmente ritengo che, come professione, dovremmo puntare al riconoscimento della laurea triennale come plafond di formazione minimo per il primo livello di compiti specificamente biblioteconomici, quello per il quale attualmente di solito - in maniera assai paradossale - non si richiede alcuna formazione specifica, bensì un qualsiasi titolo di scuola media superiore, mentre si svolgono poi, nella maggior parte degli istituti bibliotecari soprattutto di dimensioni piccole o medie, più o meno tutte le attività proprie del bibliotecario (reference, catalogazione, scelta delle acquisizioni ecc.). La laurea specialistica dovrebbe essere invece il titolo appropriato per le posizioni superiori, che comportino conoscenze più approfondite e specializzate e/o responsabilità di programmazione, gestione e supervisione. Certo una distinzione netta di livelli di responsabilità professionale non si presenta agevole né scevra da rischi, e a questo proposito potrà essere utile tenere d'occhio i risultati effettivi della complessa e discussa riorganizzazione, già in corso, degli ordini e collegi professionali riconosciuti. Con molta perplessità, infine, va guardata a mio parere la "corsa" a introdurre ulteriori gradini di formazione, ossia a ricreare - in patente contrasto con lo spirito della riforma - scuole di specializzazione che seguano la laurea specialistica, allungando e restringendo il "collo di bottiglia" per l'accesso al lavoro, con evidenti risvolti anche clientelari. Esempio preoccupante, proprio nel nostro campo, è la reintroduzione delle soppresse Scuole di specializzazione nel settore della tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio culturale, attraverso un articolo della recente legge 23 febbraio 2001, n. 29: Nuove disposizioni in materia di interventi per i beni e le attività culturali.

In conclusione, nonostante i molti giustificati dubbi sugli esiti della riforma e le sue ombre, mi sembra che si possa intanto prendere atto con soddisfazione del riconoscimento che la professione del bibliotecario ha ricevuto, insieme con quella dell'archivista, come professione intellettuale, attraverso una classe di laurea specialistica e una laurea triennale in cui le discipline biblioteconomiche e quelle archivistiche costituiscono una delle aree fondanti.

È la "laurea in biblioteconomia" tanto agognata? Se non lo è, quella che avremo sarà comunque la cosa che più gli assomiglia mai esistita nel nostro paese.


ALBERTO PETRUCCIANI, e-mail a.petrucciani@stm.unipi.it
Università degli studi di Pisa, Dipartimento di storia moderna e contemporanea, piazza Torricelli 3a, 56126 Pis

Il testo rielabora la relazione presentata alla mattinata di studio "Professione bibliotecario: formazione, lavoro e valorizzazione" tenuta a Roma, in occasione dell'Assemblea generale dei soci dell'AIB, l'8 maggio 2001.


1 Legge 19 novembre 1990, n. 341: Riforma degli ordinamenti didattici universitari.

2 D. P. R. 6 marzo 1978, n. 102: Norme sull'Università statale di Udine e sull'istituzione e il potenziamento di strutture per la ricerca scientifica e tecnologica, di alta cultura ed universitarie in Trieste; d. P. R. 3 ottobre 1979, n. 586: Modificazioni all'ordinamento didattico universitario; d. P. R. 22 luglio 1983, n. 484: Modificazioni all'ordinamento didattico universitario; d.P.R. 30 ottobre 1987, n. 582: Modificazioni all'ordinamento didattico universitario relativamente al Corso di laurea in Conservazione dei beni culturali; d. P. R. 28 ottobre 1991: Approvazione del piano di sviluppo delle università per il triennio 1991-93.

3 Ministero dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica, decreto 21 ottobre 1991: Modificazioni all'ordinamento didattico universitario relativamente al corso di laurea in conservazione dei beni culturali (introduzione del quarto indirizzo "beni musicali").

4 Dichiarazione congiunta su "L'armonizzazione dell'architettura dei sistemi di istruzione superiore in Europa", da parte dei ministri competenti di Francia, Germania, Gran Bretagna ed Italia, Parigi, la Sorbona, 25 maggio 1998, <http://www.murst.it/progprop/autonomi/sorbona/sorbi.htm>.

5 Sistema europeo di trasferimento dei crediti accademici (ECTS), di cui alla decisione del Consiglio della Comunità europea 87/377 del 15 giugno 1987.

6 Lo spazio europeo dell'istruzione superiore: dichiarazione congiunta dei ministri europei dell'istruzione superiore intervenuti al Convegno di Bologna il 19 giugno 1999, <http://www.murst.it/convegni/bologna99/dichiarazione/italiano.htm>.

7 D. m. 30 aprile 1999, n. 224: Regolamento recante norme in materia di dottorato di ricerca.

8 D. m. 23 dicembre 1999: Rideterminazione dei settori scientifico-disciplinari.