Biblioteca e città

Qualche anno fa Giovanni Solimine, parlando di una certa tipologia di biblioteca pubblica in Italia, la paragonava a una sorta di "scatola nera" della città. Si riferiva a quelle biblioteche pubbliche che sono anche "storiche", nel senso che affondano spesso le loro radici in secoli ormai lontani. Anche Francesco Barberi aveva, molti anni fa, sottolineato il bifrontismo di tante istituzioni bibliotecarie italiane di Comuni e Province, a un tempo pubbliche e di conservazione o tradizione. Piuttosto che una contraddizione, da sanare magari con inconsulti e sciagurati smembramenti, entrambi vedono giustamente tale doppia natura come una risorsa formidabile, invece che come un vincolo. Se è vero infatti che la "biblioteca del cittadino" è oggi uno dei diritti primari che una comunità deve garantire ai propri individui, è anche vero che tra questi diritti c'è anche quello "alla memoria" della comunità stessa. Sia chiaro, non la memoria contrabbandata da certi "localismi", peraltro basati spesso su una cultura da fumetto di serie B, ma quella che nasce proprio da quel senso di identità e di appartenenza che - solo - può garantire il confronto con l'altro e con il patrimonio culturale di cui è portatore.

Se visto in questa dimensione, il rapporto tra biblioteca e città è uno degli elementi sui quali fondare una nuova identità delle nostre città, molte delle quali sono profondamente cambiate negli ultimi decenni, spesso senza che dei vari passaggi di questi cambiamenti sia rimasta la minima memoria. Un vecchio film di Jean-Luc Godard aveva un titolo che, tradotto più o meno letteralmente in italiano, suonava Due o tre cose che so di lei, dove la "lei" non era affatto una donna, come si sarebbe potuto supporre, bensì Parigi, vista nel momento di una delle sue tante trasformazioni urbanistiche (quella della seconda metà degli anni Sessanta). Garantirci contro questa perdita di memoria è compito certo non affidabile solo alla biblioteca della città, ma anche dalla biblioteca è lecito aspettarsi "due o tre cose" su di "lei". In sostanza, oggi, tramite Internet, la biblioteca ci consente di avere tante informazioni su quello che accade in Nuova Zelanda: cerchiamo però di non ignorare quello che accade nella nostra strada o nel nostro quartiere.

A questo punto è lecito porsi la domanda: sono le nostre biblioteche in grado di svolgere questa funzione? Ovvero quel ruolo di "scatola nera" della cultura cittadina che è stato possibile quando i soggetti culturali attivi nelle città erano i conventi, le università e le accademie è ancora proponibile oggi, quando la cultura delle città è fatta di migliaia di soggetti e quando le trasformazioni urbanistiche, sociali, etniche, corrono veloci quasi quanto le informazioni nelle reti telematiche? Credo che sulla risposta si giochi una parte non piccola dei destini dei nostri istituti bibliotecari e del ruolo che essi possono svolgere nella crescita culturale delle realtà urbane, soprattutto di quelle metropolitane. Certo è che ci sono città (basti pensare a Roma o a Napoli) dove non sarà sufficiente la tradizionale biblioteca pubblica e neppure le già progettate mediateche per raggiungere tali obiettivi, ma occorrerà la messa in rete di tutte le risorse disponibili in loco, a prescindere dagli enti di appartenenza. Tanto per fare un esempio, a Roma, limitandoci alle sole biblioteche, esiste un patrimonio di risorse informative e documentarie straordinario, che però manca totalmente, per quel che se ne sa, di un qualsiasi momento di coordinamento. Sarà possibile dare una qualunque attuazione alla legge 59/97, senza essersi posti il problema? Ovvero, preoccupiamoci che le strutture dialoghino (non basta SBN ovviamente) e condividano i fini. Solo così potremo decidere razionalmente chi debba gestirle. Altrimenti assisteremo alle solite chiusure centraliste, alle quali si potrà opporre solo qualche piagnisteo regionalista. Ma non è certo di questo che hanno bisogno le nostre città e le nostre biblioteche.

Lorenzo Baldacchini