Virginia Carini Dainotti e il tema della formazione dei bibliotecari

di Attilio Mauro Caproni

Per alcuni anni (anni, in verità, ormai lontani), nella mia veste di segretario dell'Associazione italiana biblioteche, ho avuto la fortuna di conoscere (molto spesso anche nel senso cosiddetto materiale della parola, per una consuetudine rapidamente e affettuosamente consolidatasi) Virginia Carini Dainotti, nel suo attico del quartiere Aventino di Roma, dove regolarmente mi recavo, per incarico di Angela Vinay, con l'intento di verificare possibili rapporti di collaborazione tra l'Associazione dei bibliotecari e la Commissione per le attrezzature culturali, della quale Virginia Carini era parte essenziale.

In quegli incontri, in virtù di una ancora "inspiegabile" simpatia che in lei avevo suscitato, ho avuto la possibilità d'incontrare (ma è un concetto ovvio) una delle figure più rappresentative del mondo bibliotecario italiano, e di apprendere lezioni fondamentali sulla professione bibliotecaria. Proprio in virtù di un affetto che in qualche modo Virginia Dainotti mi riservava (del quale ero e rimango molto fiero) allora, ho potuto scambiare con lei, a ruota libera, e qualche volta sottovoce (come si suole dire secondo il lessico teatrale), quel misto di opinioni serie e di battute scherzose su molti temi biblioteconomici, nonché, più in generale, sullo stato delle biblioteche e dei bibliotecari italiani, di cui il nostro essere lì, in quei tormentati appuntamenti ufficiali sull'Aventino, ci faceva obbligo o, almeno, ci forniva stimolo. Virginia Carini Dainotti, in quelle circostanze, come è ovvio, rappresentava, innanzi tutto, se stessa e poi un importante consesso che si occupava di beni culturali, rispetto invece alla mia molto più "circoscritta" persona che, invece, si trovava a casa sua, in veste di delegato di una associazione di bibliotecari, il cui massimo valore di riferimento era, in quegli anni, Angela Vinay, la quale, bontà sua, confidava sulle mie allora buone doti di giovane di buona famiglia e con tante capacità di mediazione che, invece, come si sa, non è certamente la caratteristica più vera del mio profilo.

Non vi erano, credo, situazioni più propizie di quegli appuntamenti per cogliere, in flagrante, la prontezza, la competenza, lo slancio di comprensione e la sottigliezza di scrupoli di quella "bibliotecaria eminente", cosicché sin da quel tempo, sono sempre stato consapevole di quanto Virginia Carini fosse provvista di tutte queste doti. Gli argomenti che in quegli appuntamenti trattavamo, come ho già accennato, erano molti, come tante erano le domande che mi proponeva. Tra questa ricca messe di sollecitazioni ricordo, per esempio, che mi sottopose un suo vecchio scritto presentato in occasione di un convegno di studio tenutosi presso l'Istituto accademico di Roma, nel settembre del 1975, e avente per cartellino La preparazione dei funzionari tecnico-scientifici per i beni culturali 1 e che quello scritto fu la ragione di una nostra lunga riflessione sul tema della formazione professionale dei bibliotecari in Italia; nello stesso tempo, mi resi subito conto, appena terminato anche il primo livello della lettura, che l'immagine della Carini, nella sua particolare accezione di bibliotecaria eccellente, anche nel settore per la formazione, mi aveva non soltanto in un certo senso sorpreso ma, come è ovvio, molto impressionato.

Il tema della formazione professionale veniva introdotto, nel testo richiamato, con queste iniziali parole: «Il modo forse più semplice per dar conto della natura del problema [...], è quello di raccontare come il problema è stato affrontato in tre paesi, e cioè - oltrechè nel nostro - negli Stati Uniti e in Inghilterra». Per i due paesi di lingua inglese «l'esigenza di una preparazione professionale» fu sentita acutamente dalla professione, non dagli Stati. «Fu l'associazione dei bibliotecari americani, l'ALA, scriveva questa eccellente bibliotecaria, a porsi il problema subito dopo la sua costituzione, avvenuta nel 1876. Dieci anni dopo, invero, si apriva la prima "Scuola bibliotecaria" americana, la School of Library Economy presso la Columbia University, e prima della fine del secolo le scuole erano già quattro o cinque». Nel testo si ricordava ancora che il programma a cui si ispirarono via via le varie scuole era elaborato da uno dei padri del bibliotecariato americano, Melvil Dewey, in cui si dava per scontato che gli iscritti avessero già acquisito una buona preparazione culturale, cosicché la scuola assumeva il compito di prepararli al "mestiere" delle biblioteche. Successivamente la studiosa richiamava il rapporto preparato da Charles Clarence Williamson per la Carnegie Corporation, in cui era riconosciuto come urgente offrire al bibliotecario professionista una preparazione di livello accademico, con la conseguente necessità di ridimensionare l'insegnamento delle procedure e mettere l'accento sui "principi" dell'organizzazione e dell'attività della biblioteca. Non manca, poi, nell'intervento tutta la cronistoria delle tappe successive del problema, tappe che facevano riferimento sia al rapporto di Ralph Munn del 1936, sia alla costituzione, nel 1941, della Graduate Library School di Chicago, in cui l'esperienza americana rifiutava ancora una volta che il bibliotecario professionista potesse avere una formazione di livello non universitario. Questa tipologia di formazione, fu poi ribadito nel 1943 da Keynes De Witt Metcalf, insegnante nella Scuola bibliotecaria della Harvard University cosicché, negli anni successivi, le scuole americane continuarono a svilupparsi secondo la via indicata dallo stesso Metcalf, e con una nuova impostazione per tutta la preparazione professionale che identificava nella "teoria della biblioteca" il suo cardine essenziale e dove l'attività formativa degli addetti alla gestione del patrimonio librario doveva estendersi anche con un insegnamento in scuole post-universitarie e, facendo, in sostanza, coincidere la "teoria" non con una disciplina, ma con l'applicazione «di un taglio nuovo, di una prospettiva nuova, a tutte le discipline insegnate dalle Scuole»; taglio secondo il quale ridisegnava il profilo del bibliotecario, come un leader della professione, affinché fosse capace di contribuire a elaborare una filosofia della biblioteca come istituto.

Il documento in questione ancora indugiava sulla situazione in Inghilterra; qui Virginia Carini indagava il tema della formazione professionale nelle sue molteplici fasi e segnalava che, sin dal 1919, la Library Association, investita della didattica per la biblioteconomia, condivideva questa specificazione con una formazione a livello universitario. Invero, è proprio del 1919 l'apertura della prima scuola bibliotecaria a tempo pieno, la School of Librarianship, istituita presso l'University College di Londra, la quale conferiva il "diploma in librarianship", un titolo, appunto, di livello universitario. Ma le vicende successive del problema sono ancora illustrate nel testo e credo che risultino troppe note per darne in questa sede una trattazione analitica nei suoi diversi sviluppi. L'Inghilterra, del resto, nella storia del Novecento, ha moltiplicato i suoi modelli per la formazione dei bibliotecari, formazione vista eminentemente come un apprendimento tecnico-pratico operato nell'ambito della Associazione e presso i technical colleges, mentre per i direttori e i bibliotecari delle grandi biblioteche storiche o delle biblioteche universitarie e speciali era comune opinione che contasse quasi solo il livello di preparazione accademica e il prestigio personale degli studiosi.

Dunque, nella trattazione del tema della formazione dei bibliotecari per gli Stati Uniti e l'Inghilterra, Virginia Carini possedeva doti di sensibilità e profondità di attenzione così da dimostrare di sapere esemplificare e sapere argomentare ineccepibilmente delle situazioni in cui il problema era considerato nei suoi variegati canali strutturali. Nell'introdurre, poi, il medesimo tema nel nostro paese, la presenza e il rilievo dell'attività di Virginia Carini Dainotti nel panorama delle biblioteche di questo secolo crescono e si impongono in modo sempre più netto ed essenziale: e tutto ciò perché subito essa sa far emergere tante problematiche e nel suo pensiero si possono rintracciare temi e motivi più direttamente legati all'urgenza di oggi. Il dibattito sulla preparazione professionale si aprì in Italia quando il ministro Bargoni, sollecitato dalla Camera, nominò il 20 luglio 1869 una "Commissione sopra il riordinamento scientifico e disciplinare delle biblioteche del Regno" presieduta da Luigi Cibrario, la quale produsse una relazione che portò al regio decreto del 25 novembre 1869, il quale riordinava i servizi bibliotecari, stabiliva un nuovo organico, classificava le biblioteche e, soprattutto, determinava il modo di ammissione dei bibliotecari nei centri formativi, nonché le materie d'esame. Ma il ricordato decreto, purtroppo, ridusse di molto le proposte della menzionata Commissione, e anche gli interventi di Cesare Correnti, nel redigere il regolamento sugli esami di ammissione già proposto dal Bargoni, non riuscirono a centrare pienamente la questione, poiché quegli esami erano tanto difficili che Ferdinando Martini alcuni anni dopo poteva intrattenere la Camera dei deputati con alcuni aneddoti che ne dimostravano l'assurda severità. «Da questa gente - raccontava il Martini alla Camera - si esige la conoscenza di tutte le lingue vive europee, la storia universale e, notate, anche la perfetta conoscenza della lingua italiana. Io ricordo che Niccolò Tommaseo, mentre leggeva sorridendo quel Regolamento, diceva: se ai bisogni dei miei vecchi anni non sopperisse il mio lavoro, e non fossi cieco, il distributore di una biblioteca non lo potrei fare, perché la perfetta conoscenza della lingua italiana non l'ho neppure io. E poiché qui gli aneddoti hanno valore di argomento - continuava il Martini - la Camera mi permetta di citarne un altro ed è questo: vacando un posto di distributore di prima classe in una biblioteca, e precisamente nella Biblioteca nazionale di Firenze, due uomini si presentarono chiedendo essere ammessi per titoli. Non fu loro concesso e si volle l'esame, secondo il Regolamento. Quand'essi ebbero sott'occhio il Regolamento di quell'esame si spaventarono della prova che avrebbero dovuto sostenere, e si ritirarono. Pochi giorni dopo l'uno di essi, il prof. Gargiolli, fu nominato Provveditore centrale al Ministero dell'Istruzione Pubblica; l'altro, il prof. Fornaciari, fu fatto accademico della Crusca».

Un successivo capitolo per la soluzione del problema fu affrontato da Ruggero Bonghi che, nel 1876, nel giorno dell'inaugurazione della Biblioteca nazionale centrale di Roma, propose al Re di affiancare all'istituto ospitato nel Collegio Romano, così come presso le altre biblioteche nazionali del regno, una scuola di bibliografia e di bibliologia in cui dovevano essere compenetrati a livello culturale sia l'aspetto della dottrina generale, sia quello tecnico, e il cui insegnamento non doveva essere necessariamente affidato a un bibliotecario già oberato dal lavoro cosiddetto d'ufficio, ma piuttosto a due professori che potevano essere estranei alla professione. Ma, nonostante le buone intenzioni del Bonghi, nulla di tutto ciò si fece e Michele Coppino, succeduto al Bonghi nel Ministero dell'istruzione pubblica, non dedicò una particolare attenzione alle biblioteche e nessun corso tecnico fu istituito né a Roma né altrove. Eppure l'opportunità e la necessità di dare ai bibliotecari e agli aspiranti bibliotecari una preparazione tecnica era così sentita che, nel 1883, Guido Biagi, a Firenze, teneva delle lezioni per gli alunni di quella Biblioteca nazionale centrale. Anche nei successivi regolamenti del personale scomparvero e riapparvero i predetti corsi tecnici: poi - dai primi anni del secolo - il problema non veniva neppure più accennato nei documenti legislativi e sembrava ormai definitivamente stabilito che il bibliotecariato non era una professione e, quindi, il bibliotecariato non si poteva insegnare. Certo occorreva - scriveva Virginia Carini - essere persone colte, ma a questo si provvide accrescendo via via i "requisiti" per i concorsi, sia all'inizio della carriera, sia nelle tappe intermedie. Nel 1896 abbiamo ancora la costituzione della Società bibliografica che, pur riunendo il fior fiore della cultura italiana, non era sostenuta da nessuna solida istituzione, come la Carnegie Corporation già richiamata, che offriva anche una ricca attività editoriale. Nel suo excursus sul tema della formazione dei bibliotecari Virginia Carini ricordava poi, nel suo documento, che nel 1930 nasceva l'Associazione italiana biblioteche, la quale pubblicò la Dichiarazione dei bibliotecari italiani sui rapporti fra Stato e Regioni in materia di biblioteche, documento che richiedeva l'istituzione di corsi di laurea e istituti professionali di vario livello, e che lo Stato si riservò il compito di provvedere in materia di esami e di qualifiche «anche per la difesa della professione». Questa Dichiarazione, come si sa, fu approvata dall'AIB molti anni dopo, da un congresso tenutosi nel 1971, quando nel nostro paese avvenne il trasferimento alle Regioni della competenza in materia di biblioteche di enti locali. Di identica ispirazione era, poi, stata la proposta avanzata dalla Direzione generale delle antichità e delle belle arti del Ministero, al CIPE, con il documento contrassegnato come Programma 80; la proposta avanzata richiamava l'istituzione di una Scuola nazionale per i bibliotecari suddivisa in conservatori, documentalisti e animatori. Questa proposta inserita in tale documento, se fosse stata attuata, avrebbe modificato in profondità i sistemi di preparazione. All'istituzione di una Scuola centrale si sarebbe dovuta affiancare una rete di Scuole regionali atte a istruire il personale nella funzione di aiuto bibliotecario. La predetta Scuola nazionale, inoltre, nell'intenzione dei proponenti, avrebbe dovuto avere il carattere di istituto di studi superiori e di amministrazione, frequentata da studenti universitari con una base culturale di un certo livello, legata anche alle differenti facoltà che i medesimi avrebbero frequentato e sostenuti da borse di studio e da presalari. Il progetto, come è a tutti noto, naufragò nel gennaio del 1972 quando fu discussa e passò la legge che determinava il passaggio della competenza sulle biblioteche degli enti locali alle Regioni forzando ulteriormente quel distacco tra "centro" e "periferia" che risultava la carta vincente nel panorama inglese. La stessa Associazione italiana biblioteche cercò, ancora, di approntare un piano che regolamentasse la preparazione del settore bibliotecario, proponendo delle sostanziali novità:
1. introduzione, fin dalle scuole medie e dalle scuole superiori, di insegnamenti di metodologia dello studio e della ricerca;
2. creazione di Istituti tecnici professionali per la preparazione degli assistenti di biblioteca, con il compito di educare in un corso quinquennale i ragazzi provenienti dalla scuola dell'obbligo, rilasciando poi un diploma di assistente di biblioteca;
3. a livello universitario, creazione di corsi di laurea articolati in bienni con indirizzi sia per bibliotecari documentalisti che per conservatori.

L'AIB mostrava, dunque, una forte sensibilità sulla questione e la univa a una netta percezione dei problemi della preparazione sia specializzata sia di ampio respiro che doveva caratterizzare la figura e lo status del bibliotecario. La relazione della Dainotti dimostrava come accanto a un'indubbia capacità italiana di chiarire i problemi da affrontare sia mancata una risoluta volontà di affrontarli rifugiandosi a volte, vedi la Società bibliografica, all'interno della nicchia della cultura di alto livello, mentre, ed è tipico del panorama americano e inglese, la formazione partiva dai sobborghi cittadini, descritti da Dickens, e toccava le biblioteche locali, quelle frequentate dal popolo. Ma sempre Virginia Carini osservava come pure sia mancata da parte di chi doveva elaborare i piani di preparazione una discussione teorica, metodologica e programmatica della funzione del bibliotecario e del ruolo della biblioteca (mancava l'approfondimento di quella filosofia della biblioteca che, in ambito inglese e americano, precedeva man mano lo studio dei progetti educativi). Nella relazione, inoltre, questa insigne bibliotecaria tendeva ad offrire una serie di soluzioni fattibili che trovavano il loro nesso propulsore nella formazione e nel ruolo dei "buoni maestri", ossia nell'attenzione al rinnovamento e all'aggiornamento dei docenti. Leggi chiare e distinte dovevano regolare l'aspetto pratico-tecnico e quello legato alla cultura generale. Ma la preparazione del bibliotecario era una funzione amministrativa: ecco la necessità di qualifiche statali, di una uniforme preparazione dei metodi e dei principi che dovevano assicurare un indirizzo ben delineato alla professione (scriveva la Dainotti) e, infine, di saper collegare la preparazione professionale con la disponibilità dell'impiego (quindi aver già predisposto una consequenzialità tra programmi ed esiti anche lavorativi). Con l'aspetto tecnico la Dainotti faceva ancora convergere quello culturale. Istituire scuole con programmi triennali che potevano mutare nella loro elaborazione e fattibilità nel corso degli anni, in seguito allo sviluppo di nuove metodologie. Queste metodologie si dovevano discutere, anche nel contesto di uno sviluppo editoriale legato alla nicchia delle collane di manuali e monografie, intorno alle discipline del libro e con la traduzione di opere straniere. Sulla scorta dei programmi della Scuola nazionale, le singole Scuole regionali avevano l'obbligo poi di adeguarsi con intelligenza e flessibilità, preparando gli allievi alla scientificità e alla tecnica; tuttavia, doveva comunque essere la Scuola nazionale a conferire diplomi. «Occorreva - scriveva sempre Virginia Carini - che Università e Ministero trovassero un accordo per offrire alla Scuola una fisionomia, un tratto di istituzione universitaria ma fuori dallo schema delle facoltà e dei dipartimenti. La Scuola, poi, nel biennio formativo, doveva lasciare libertà allo studente di entrare negli istituti dipendenti dal Ministero con la qualifica di aiutante di biblioteca, mentre ai migliori tra i diplomati occorreva fornire la possibilità di frequentare i corsi di specializzazione che le Università dovevano, in qualche modo, programmare».

Una riforma della preparazione dei funzionari ancora doveva, quindi, configurarsi sia su aspetti tecnici che di cultura generale, ma supportata da attente scelte ministeriali e di politica universitaria, vuoi il riordinamento delle biblioteche di facoltà e di istituto con un ristrutturato coordinamento delle biblioteche universitarie statali. La relazione della Dainotti nell'elogiare le realtà anglosassoni non dimenticava di considerare come la necessità della preparazione intellettuale e professionale maturò grazie alla diffusione di biblioteche aperte a tutti (non solo all'affermazione di una società industriale e democratica) mentre in ambito italiano quest'idea di biblioteca pubblica dove i ragazzi non trovavano un loro spazio fisico e aree bibliografiche affini ai loro interessi tardò a maturare e, se maturò, lo si doveva soprattutto alla figura di Virginia Carini Dainotti. Questa bibliotecaria aveva così percepito sino in fondo la condizione di confusione che caratterizzava e tuttora caratterizza questo importante settore della vita bibliotecaria del nostro paese e, tramite queste sintetiche note di lettura sull'argomento, guardava alla soluzione del problema, offrendo, tuttavia, una visione fortemente centralistica del potere dello Stato che, per il tramite del suo Ministero preposto, doveva costruire un sistema formativo dei suoi addetti alle biblioteche con un apparato solo di collaborazione con le università, considerate come parti secondarie di un problema più articolato e complesso.

Nel concludere questo suo scritto, del resto, Virginia Carini annotava come il suo intervento costituiva non una vera e propria proposta, ma piuttosto un «ballon d'essai» per le istituzioni pubbliche preposte alla gestione delle biblioteche, istituzioni che avrebbero dovuto intervenire e far conoscere se e in quale misura sembrava loro accettabile. A tale proposito Virginia sintetizzava una serie di punti che vale la pena rileggere insieme:
«1 - la creazione di una scuola presuppone l'utilizzazione di docenti; e tanto più avrà successo la scuola, quanto più presto disporrà di docenti valorosi. Nell'esperienza statunitense e inglese voi avete rilevato la continua preoccupazione di formare i docenti;
2 - l'ordinamento regionale, mentre postula che le Regioni abbiano uno spazio proprio nella preparazione dei loro tecnici, accresce l'urgenza di dare ai dirigenti una preparazione tendenzialmente uniforme nei princípi e nei metodi per assicurare un indirizzo unitario alla professione e uno sviluppo equilibrato agli istituti;
3 - in presenza dell'ordinamento regionale, le qualifiche e i titoli devono essere statali. Sarebbe un bel caso se domani il Veneto o la Lombardia escludessero da un concorso o da un posto un bibliotecario perché qualificato nel Molise o in Sicilia;
4 - è senza dubbio in corso un moto accelerato di istituzione di nuove biblioteche, un moto al quale ha dato l'avvio lo Stato negli anni cinquanta; comunque, però, le biblioteche sono ancora pochissime in Italia, e le biblioteche che raggiungono gli standards minimi di funzionamento e di finanziamento stabiliti dal Ministero, e che potrebbero quindi assumere personale qualificato e pagarlo, sono forse 250 su 8.054 Comuni italiani. Questo significa che sono pochi - pochissimi - i "posti" di bibliotecario; perciò è difficile credere che, aperte in un certo numero di università delle scuole di bibliotecariato, o istituiti dallo Stato gli Istituti tecnici, vi concorreranno poi numerosi gli allievi. Al Ministro Spadolini oggi, come un secolo fa a Ruggero Bonghi, si pone realisticamente il problema di collegare la preparazione professionale con la disponibilità o la preventiva assunzione dell'impiego.
5 - Per questo e per molti altri motivi, la Scuola deve essere istituita dal Ministero dei Beni Culturali, come un proprio organo tecnico, ovviamente con la consulenza del Consiglio Superiore e di un'eventuale Commissione Centrale per la formazione professionale».

Queste interessanti considerazioni mi sono servite per illustrare le vorticose modificazioni che il tanto indagato tema della formazione dei bibliotecari in Italia ha rappresentato, cosicché ancora oggi, nonostante tante nuove esperienze formative, soprattutto in ambito universitario, le indicazioni di Virginia Carini sono un utile contributo per cercare di definire un quadro sistematico di insieme, i cui punti nodali sono stati e permangono ad essere i seguenti:
1. Concezione, obiettivi e funzioni dell'insegnamento della biblioteconomia;
2. Cicli di insegnamento della biblioteconomia;
3. Sistemi e istituzioni destinati alla formazione biblioteconomica;
4. Piani e programmi di studio appropriato;
5. Metodologia dell'insegnamento della biblioteconomia seguendo gli obiettivi della doppia formazione teorica e tecnica;
6. Forme di apprendimento della biblioteconomia;
7. Metodi di valutazione del rendimento didattico;
8. Gli insegnamenti non biblioteconomici nella formazione biblioteconomica; il problema della formazione generale considerata nei suoi rapporti con la professione bibliotecaria;
9. Formazione e reclutamento del personale preposti all'insegnamento;
10. Reclutamento degli allievi; le questioni di orientamento educativo e professionale nelle scuole di biblioteconomia;
11. Contributo dei centri di formazione bibliotecaria per il perfezionamento e per l'utilizzo dei bibliotecari e degli specialisti della biblioteconomia in corso d'impiego; corsi destinati a degli studenti già diplomati;
12. Contributo dei centri dell'insegnamento della biblioteconomia all'insegnamento a vari livelli, cosicché questi centri, possibilmente universitari, ne possano trarre vantaggio anche per la formazione degli addetti ai siti di produzione e conservazione della cultura cosiddetta popolare e per la pubblica lettura.