«Il futuro è già cominciato!». Questa la battuta più ricorrente nei commenti degli esperti della finanza internazionale, quando martedì 11 gennaio 2000 i media annunciavano quella che è stata definita la più grande fusione della storia dell'economia: l'accordo AOL (America On Line)-Time Warner. Un matrimonio del valore di 650.000 miliardi di lire (equivalente alla somma del prodotto interno lordo di due paesi come il Belgio e il Portogallo) che vede una giovane, svelta e intraprendente Internet company - affermatasi rapidamente nel mondo della finanza vendendo a 22 milioni di persone il collegamento alla rete - unirsi al colosso mediatico Time Warner, titolare di un prestigioso patrimonio di eccezionale valore: televisioni, riviste, cinema, musica, tra cui spiccano emittenti come la CNN, testate come «Time» e il famoso marchio cinematografico Warner Bros. Con questa operazione AOL sarà in grado di offrire sulla rete una varietà illimitata di informazioni e prodotti di intrattenimento (programmi televisivi, giornali, dischi, film, ecc.), mentre la Time Warner potrà contare su una solida base di abbonati e su quanto le abbisogna in termini di know how tecnologico per imporsi su Internet.
Ma a suscitare tanto scalpore non è solo la cifra record dei capitali movimentati; la novità sta nel fatto che mentre fino a poco tempo fa le concentrazioni dell'industria mediale avvenivano su due terreni di gioco separati, quello televisivo, cinematografico ed editoriale da una parte e quello della telefonia e di Internet dall'altra, adesso questo schema viene superato, dando il via alla connessione tra produttori di contenuti e servizi di rete. Si apre così il capitolo forse più atteso della "convergenza tecnologica", un'operazione ormai in pieno sviluppo, che sfrutta le molteplici potenzialità messe in atto dalla combinazione delle differenti tecniche di comunicazione stabilmente posizionate negli spazi domestici di centinaia di milioni di consumatori. Gli operatori economici esultano di fronte allo scenario disegnato dalle autostrade telematiche e rimettono a punto le loro strategie per guadagnare posizioni e sfruttare le opportunità di mercato che si vanno dischiudendo. È fin troppo facile prevedere che l'operazione AOL-Time Warner non rimarrà un episodio isolato e presto seguiranno altre transazioni di questo tipo: si riconfigureranno gli assetti per il controllo dei media, emergeranno sulla scena nuovi attori e nuove competenze, si svilupperà una nuova creatività, il commercio elettronico renderà più efficiente e capillare la distribuzione e una gamma svariata di prodotti e servizi ci raggiungerà attraverso il PC, la televisione, il telefonino e altri consimili (e più evoluti) strumenti a portata di mano.
Accolte con scetticismo ancora dieci anni fa, le profezie secondo le quali il processo di concentrazione avrebbe consentito a un numero limitato di potentati economici di dominare il settore media si stanno clamorosamente avverando. Il risultato di questa tendenza è una specie di grande ministero della cultura gestito da una società privata, «un mega conglomerato mediale più grande di quei paesi la cui politica monopolistica dell'informazione noi condanniamo come violazione dei valori democratici» - osserva allarmato un opinionista dello stesso «Time» - interrogandosi sugli effetti che la concentrazione dei media potrebbe avere sul pubblico americano.
Ma se è vero che viviamo in un mondo globalizzato qualche motivo di inquietudine dovrebbero averlo i cittadini dell'intero pianeta. La liberalizzazione accelerata del settore delle comunicazioni voluta dagli Stati Uniti negli anni Novanta - scriveva Michele Mezza sulla rivista «Limes» qualche anno fa - mirava «esplicitamente alla conquista della piazza europea. Mantenere un ritmo di liberalizzazione unico fra le aree del mondo espone inevitabilmente i mercati delle aree più deboli, dove ancora non si è consumato il processo di convergenza, ad una competizione insostenibile».
L'offerta ad ampio raggio di prodotti di intrattenimento e servizi di informazione realizzati e distribuiti dalle grandi corporations, con la sua forza di penetrazione nei differenti strati sociali, implica inevitabilmente l'accelerazione del processo di omologazione culturale già in atto, con tutto quello che ne consegue sul piano dell'assimilazione di modelli di vita e di consumo proposti dalla cultura egemone.
Non si tratta di una competizione leale ma di una partita le cui regole del gioco sono definite (e gestite) dal più forte dei contendenti. Infatti se da una parte il governo degli Stati Uniti spinge per la massima liberalizzazione nel settore delle comunicazioni, dall'altra assume il ruolo di rigido difensore della proprietà intellettuale, propugnando in senso restrittivo la revisione delle sue norme attraverso la WIPO (World Intellectual Property Organization) e la WTO (World Trade Organization), seguito a ruota dalle direttive dell'Unione europea. Norme che non hanno molto a che vedere con la dottrina originale della proprietà intellettuale la cui finalità è quella di favorire la creatività tutelando sia l'autore che l'interesse generale attraverso la diffusione universale delle conoscenze.
Questo è il quadro in cui oggi si svolge l'offensiva per l'appropriazione dei contenuti, che, in altri termini, consiste nell'ottenere il controllo di entità in grado di produrre conoscenza e nell'acquisire i diritti di sfruttamento dei cosiddetti "serbatoi di contenuti". «Accumulando i diritti di proprietà intellettuale sull'insieme delle conoscenze (dai fondi degli archivi fotografici, al genoma umano, dai programmi informatici ai medicinali) - sostiene un editoriale pubblicato su «Le monde diplomatique» - i paesi più ricchi e giuridicamente meglio protetti (un terzo degli avvocati del pianeta si trova negli Stati Uniti), controllano saldamente ampi settori delle future produzioni».
Con straordinaria lungimiranza Bill Gates, fondatore della Microsoft, alcuni anni fa inaugurava il nuovo trend acquistando diritti di riproduzione di opere d'arte e collezioni fotografiche conservate da musei e archivi italiani ed europei; un esempio subito seguito da altri operatori del settore. Tornando ai tempi più recenti, possiamo menzionare l'acquisizione della Chadwyck-Healey (un editore ben noto al mondo delle biblioteche, che, tra l'altro, distribuisce dati sull'attività delle istituzioni comunitarie) da parte della Bell & Howells, l'acquisizione della EMI (la famosa casa discografica britannica) da parte della Time Warner, oppure la polemica suscitata in Francia dall'offerta di acquisto da parte di Reuters della società ORT, un'agenzia che detiene, in concessione dal governo francese, la distribuzione dei dati del registro del commercio e altre informazioni di utilità pubblica. Meno pubblicizzata, ma non per questo meno preoccupante, è la campagna avviata, dopo la caduta del muro di Berlino, da alcune hi-tech companies d'oltreoceano per l'acquisizione dei diritti di riproduzione di interi musei e collezioni documentarie dei paesi dell'Est europeo.
Nei tempi che corrono è fin troppo facile insinuare il sospetto di luddismo, protezionismo, nazionalismo, o peggio, nei confronti di chi si ponga criticamente rispetto alle tendenze in atto o non riesca a dissipare i suoi dubbi al cospetto del sorriso smagliante dell'ultimo magnate alla ribalta delle cronache finanziarie. Non è certo la tecnologia che preoccupa, ma il predominio economico culturale americano, la logica esclusiva del mercato che invade la rete mortificandone le potenzialità democratiche e autenticamente culturali. Non è l'iniziativa privata che si vuole contrastare, in nome dello statalismo regressivo che ancora incrosta i meccanismi di sviluppo del nostro e di altri paesi europei opponendosi ai tentativi di riforma, ma il potere schiacciante dei grandi conglomerati, che erodono gli spazi della piccola e media impresa deprimendo la qualità e il pluralismo della produzione culturale. Ma nella nuova economia globalizzata qual è lo spazio riservato all'intervento pubblico? Quali i confini tra tutela dell'interesse generale e libera iniziativa privata? «D'altra parte - continua «Le monde diplomatique» - l'appropriazione delle conoscenze da parte delle imprese private non è sempre legittima. La ricerca tecnologica, ma anche la produzione culturale, si nutrono innanzitutto della condivisione delle conoscenze all'interno della società nel suo insieme». Del resto una parte delle conoscenze sfruttate dal mercato dell'informazione proviene da dati originati dalle pubbliche amministrazioni e da ricerche finanziate da fondi pubblici. Si pensi per esempio all'editoria scientifica che si basa interamente sul lavoro di ricercatori e docenti stipendiati da enti pubblici (senza contare che sono poi le biblioteche degli stessi enti pubblici ad acquistare a caro presso le pubblicazioni realizzate con questo sistema). Insomma occorre una nuova consapevolezza dei problemi emergenti soprattutto da parte dei decisori. «Purtroppo i meccanismi di promozione e tutela dello spazio pubblico della conoscenze - conclude il giornale francese - sono in gran parte in uno stato di abbandono, in assenza di una riflessione rinnovata sul concetto di "bene pubblico mondiale"».
È ormai evidente che l'asse della competizione si sta spostando dall'industria del software allo sfruttamento dei "contenuti". Un terreno molto più congeniale all'Europa che detiene oltre il 90% dei beni artistici e dove almeno l'80% dei diritti letterari è di proprietà di soggetti europei. «Questi sono dati - osservava ancora Mezza nell'articolo sopra citato - che potrebbero indicare la via di una possibile controffensiva. Senonché già si profila l'ombra di una nuova sconfitta storica. Infatti proprio chi, come le grandi corporations americane rivendicano con forza il sacro diritto al copyright dei prodotti audiovisivi si oppone con forza al riconoscimento dello stesso diritto per le opere d'arte e storiche».
Non si tratta ovviamente di una questione esclusivamente economica, anche se questo aspetto non è di scarso rilievo se pensiamo alle possibilità di lavoro, alla crescita di competenze e creatività, allo sviluppo di una nuova imprenditorialità, e a tutto l'indotto che la valorizzazione del patrimonio culturale mediante l'apporto tecnologico potrebbe attivare a vantaggio del paese. Si tratta di una questione più delicata, che ha a che fare con la memoria storica, con l'identità culturale di interi popoli e dei paesi sparsi sul pianeta. In questo scenario l'Italia sembra più predisposta a essere terreno di conquista dei grandi conglomerati multimediali che ad attivarsi come protagonista dei nuovi sviluppi che si vanno prefigurando. Il rischio è che fra alcuni anni gli italiani avranno una sovranità limitata sul loro patrimonio culturale e saranno invece coloro che ne hanno acquisito i diritti di sfruttamento a stabilire quali sono i criteri per poter accedere a un determinato documento e a decretarne l'autenticità sulla rete.
Pur con le sue contraddizioni ed esitazioni, l'UE non sembra intenzionata a farsi relegare a un ruolo di secondo piano nella competizione per lo sviluppo della società dell'informazione: l'innovazione tecnologica è ai primi posti nell'agenda dei prossimi sei mesi e già si sta preparando un nuovo piano d'azione volto ad attuare misure per ridare slancio al settore. I provvedimenti dell'UE mirano essenzialmente a predisporre le condizioni per favorire riforme e interventi, ma è compito dei governi nazionali adottare le iniziative concrete. Sarebbe ingiusto non riconoscere l'attenzione che il governo italiano sta dedicando all'innovazione tecnologica: lo sforzo per introdurre l'uso del computer nelle scuole, i provvedimenti dell'ultima legge finanziaria e la recente nomina di un sottosegretario con delega specifica all'innovazione, sono qualcosa di più della semplice espressione di una volontà politica. Inoltre l'attivazione del "Forum per la società dell'informazione" presso la Presidenza del Consiglio ha favorito il confronto di idee ed esperienze fra interlocutori di diversa provenienza, facendo confluire la riflessione in un percorso più concreto e costruttivo che dovrebbe dar luogo, tra breve, a un vero e proprio piano di azione.
Tuttavia, per colmare il divario accumulato, non diciamo rispetto agli Stati Uniti, ma agli altri grandi paesi europei, occorre un impegno ben più corposo. La legge finanziaria in realtà ha adottato provvedimenti molto limitati e circoscritti ad alcuni interventi specifici, dove i settori della cultura e della ricerca sono appena sfiorati. Nelle dichiarazioni di esponenti del governo e nel dibattito in corso sulla società dell'informazione emerge finalmente una certa attenzione su questi temi, tuttavia abbiamo l'impressione che si stenti a tradurre in indicazioni e proposte le affermazioni di principio sul valore strategico dello sviluppo dei contenuti e l'importanza del patrimonio storico e artistico. Soprattutto sembra che sfugga il nesso tra domanda di cultura e di informazione, innovazione tecnologica e azione per rivitalizzare le strutture esistenti e recuperarle a un ruolo più attivo. Ad esempio, si fa un gran parlare dello sviluppo della ricerca, ma quali azioni si stanno attuando per dare vigore al sistema di comunicazione scientifica? L'Italia è tra i pochi paesi sviluppati che non abbia programmi nazionali volti a facilitare l'accesso alle risorse informative elettroniche, ad incentivare la cooperazione tra le biblioteche per farne strumento efficiente di supporto alla ricerca e alla didattica universitaria. Si riconosce (finalmente!) alle biblioteche pubbliche un ruolo nei programmi di "alfabetizzazione tecnologica" e nello sviluppo dei servizi di informazione per il cittadino, ma quali interventi sono previsti per consentire a queste strutture di svolgere efficacemente i nuovi compiti?
Occorrerebbe un maggiore impegno politico per armonizzare le diverse esigenze provenienti dai differenti attori della società dell'informazione, cosa che non abbiamo constatato alla prova dei fatti. Basti ricordare le vicende riguardo alla revisione della normativa del copyright in applicazione delle direttive comunitarie (dove le biblioteche hanno avuto molto da fare per evitare il peggio, non sempre riuscendovi), oppure la questione della riduzione dell'IVA (ora al 20%) sulle pubblicazioni elettroniche scientifiche (assimilate di fatto a qualsiasi gadget di largo consumo), una misura di cui potrebbero giovarsi sia le biblioteche che i fornitori di informazione, nonché l'annaspante editoria accademica nazionale per promuovere a più ampio raggio l'accesso a questi strumenti. Insomma da una parte si individua nella ricerca e nella cultura uno dei pilastri su cui edificare la società dell'informazione, dall'altra non si intravede una politica efficace per sostenere l'innovazione delle strutture che svolgono queste funzioni . Un comportamento del resto coerente con la linea (che affiora anche dai provvedimenti che si intende adottare per incoraggiare i giovani in età scolare all'uso del computer) tendente a incentivare le soluzioni individuali invece di favorire, mediante le strutture pubbliche, la fruizione collettiva di questi mezzi in attuazione del principio della pari opportunità di accesso all'istruzione.
D'altra parte dobbiamo rilevare una insufficiente partecipazione sia dei bibliotecari che di altri operatori dei beni culturali e della ricerca al dibattito sulla società dell'informazione. Probabilmente non per mancanza di idee ma per la predilezione a rinchiudersi negli specialismi e coltivare il proprio orto. Ma questo non volersi "immischiare nella politica" non potrebbe nascondere l'attitudine a lasciare che altri si assumano le responsabilità? Se è compito della politica disegnare una visione, esprimere una direzione, indicare le priorità, è diritto-dovere dei livelli tecnici amministrativi esprimere esigenze, proporre linee operative e fornire gli input ai decisori.
Non ci aspettiamo né ci auguriamo l'intervento diretto del governo in tutte le attività economiche e culturali del paese. È tuttavia evidente che i settori della ricerca, dell'istruzione e dei beni e delle attività culturali rientrano in gran parte nella sfera dell'intervento pubblico. Se è vero che la valorizzazione dei contenuti è un fattore decisivo per lo sviluppo della società dell'informazione, quest'area dovrebbe essere l'epicentro dell'azione di governo. Invece proprio in questo ambito notiamo un'iniziativa ancora allo stato embrionale, episodica e frammentata, priva di un disegno unitario. In questa situazione anche i buoni progetti che stanno spuntando rischiano di inaridire per mancanza di risorse o di rimanere prigionieri di ottiche settoriali e burocratiche. Abbiamo l'impressione che il pullulare di piccole "iniziative digitali" cui stiamo assistendo negli ultimi tempi siano più una testimonianza di interesse e di potenzialità, un esercizio utile alla crescita di competenze professionali che l'affermarsi di una reale prospettiva. Frammentazione, compartimentalizzazione, scarsità di finanziamenti sono l'esatto contrario di convergenza, sinergia, progettualità, investimenti, cioè i fattori di successo delle nuova economia. L'idea che questo settore possa decollare con i metodi finora adottati o con qualche trovata ad effetto è una pia illusione. Ed è anche improbabile che le strutture, senza gli opportuni adeguamenti organizzativi, siano in condizione di esprimere al meglio la progettualità richiesta e di attrarre le risorse necessarie ad avviare un nuovo trend. Persiste ancora l'erronea opinione che basta qualche scanner e un po' di buona volontà per avviare un progetto digitale, oppure che sia sufficiente dotare ciascuno di un computer per dare l'accesso all'informazione. Come si può facilmente rilevare da esperienze in corso altrove, la costruzione di biblioteche digitali richiede, oltre che una chiara visione delle finalità culturali e sociali dell'impresa, cospicui investimenti e molteplici competenze che si possono mobilitare solo attraverso l'alleanza tra più soggetti.
L'affermarsi della società dell'informazione indubbiamente crea nuove opportunità, in primo luogo per i paesi dotati di patrimonio di conoscenze, tecnologie e immaginazione. La possibilità di incidere positivamente sui processi in corso per orientarli verso mete desiderate e per contribuire alla soluzioni delle contraddizioni che si stanno evidenziando è correlata alla capacità di iniziativa economica, politica e culturale di ciascun paese. Non è vagheggiando un ritorno alla mitica arcadia o erigendo muraglie con i detriti del passato che si affrontano le sfide della nostra epoca. L'avanzare dell'industria mediale multinazionale non si contrasta chiudendosi in difesa ma rilanciando il gioco con grandi iniziative che ci consentano di competere con queste realtà. Iniziative che non possono nascere all'interno di ottiche settoriali, ma che richiedono convergenze tra i diversi settori (musei, archivi, biblioteche), collegamenti con i grandi laboratori della ricerca tecnologica e con gli editori, sinergie con l'impresa privata e grandi investimenti. Immaginazione, intraprendenza e risorse da noi non mancano, ma occorre liberarle e incanalarle verso obiettivi condivisi . L'Italia avrebbe tutti i requisiti per poter svolgere il ruolo che le compete a condizione che acquisti consapevolezza dei suoi punti di forza, sappia controllare le sue debolezze e dare una direzione al mutamento tecnologico.
D'altra parte dobbiamo riconoscere che gli abitanti del Belpaese non sono stati sempre grandi estimatori della loro maggiore ricchezza e se oggi possiamo ancora ammirare e studiare le testimonianze della nostra civiltà, lo dobbiamo in parte a tanti cittadini stranieri che hanno amato la cultura italiana e hanno saputo valorizzarla. Di fronte all'inerzia storica e perfino all'incuria che spesso hanno caratterizzato la gestione dei beni culturali, potrebbe risultare non solo giustificato ma desiderabile che anche nell'era digitale altri prendano l'iniziativa per valorizzare la nostra eredità storica e artistica, che in definitiva è patrimonio universale dell'umanità. Chi si accontenta...