RECENSIONI E SEGNALAZIONI

Maria Iolanda Palazzolo. Editoria e istituzioni a Roma tra Settecento e Ottocento: saggi e documenti. Roma: Archivio Guido Izzi, 1994. IX, 134 p. (Roma moderna e contemporanea. Quaderni; 1). ISBN 88-85760-47-3. L. 20.000.


Gli articoli pubblicati in questo primo volume dei quaderni di "Roma moderna e contemporanea" rappresentano una prima sistemazione degli studi che Maria Iolanda Palazzolo, studiosa di storia dell'editoria, ha condotto sulla produzione e il commercio librario a Roma fra Settecento e Ottocento.

Il volume ripropone, quasi in contemporanea con la loro uscita sulla rivista che dà il nome alla collana, tre interventi su aspetti diversi della vita culturale romana (Banchi, botteghe, muricciuoli: luoghi e figure del commercio del libro a Roma nel Settecento, 2, 1994, n. 2, p. 419-443; I provvedimenti sull'editoria nel periodo napoleonico tra immobilismo e segnali di rinnovamento, 2, 1994, n. 1, p. 153-178; L'Arcadia romana nel periodo napoleonico (1809-1814), 1, 1993, n. 3, p. 175-188) e una ricerca sulla famiglia di tipografi e librai romani che ha legato il suo nome, fra l'altro, alla splendida edizione neoclassica dell'Eneide tradotta da Annibal Caro del 1819 (Una famiglia di stampatori: i De Romanis nella Roma dei papi, già apparsa nel catalogo della mostra Tre secoli di storia dell'Arcadia, Roma: Biblioteca Vallicelliana, 1991).

I primi tre articoli contribuiscono a ridimensionare un luogo comune singolarmente resistente negli studi di storia dell'editoria e del commercio librario in Italia. La città di Roma, come sottolinea l'autrice nella Premessa, è stata infatti oggetto di indagini accurate solo per quanto riguarda la precoce introduzione della stampa dei primordi, ma ha dovuto subire, per i secoli successivi, un sostanziale riflusso dell'interesse scientifico, che ha condotto gli storici a liquidare almeno trecento anni di vita culturale con giudizi affrettati, quando non con la totale indifferenza.

In realtà, e lo dimostra la Palazzolo con una serie di documenti di prima mano riprodotti in appendice al volume, la situazione romana non è tutta riconducibile entro la categoria della impermeabilità ai processi di rinnovamento che, in pieno ancien régime, percorrevano l'Europa: la circolazione dei libri a Roma, nel corso del Settecento, è stata invece oggetto di attenzione sia da parte degli alti gradi della Curia, soprattutto per quanto riguardava la regolamentazione della stampa e il controllo sugli stampati, sia da parte della Compagnia dei librari interessati al rispetto dei privilegi commerciali. Preoccupazioni di segno differente che in fondo finiscono per convergere nel comune intento di vigilanza sull'attività di vendita dei libri nel territorio, e che mette in luce, per converso, una trama commerciale al minuto decisamente sfuggente alle regole di monopolio invocate dalla Compagnia in difesa del proprio statuto, anche se in apparenza nel nome dell'ortodossia.

La nascita incontrollata di nuove figure di commercianti di libri, merciai, rigattieri, cartolai, più che confermare una atmosfera di torpore culturale della Roma dei papi, pare risvegliare le aspirazioni della Curia verso la gestione diretta di quella specifica produzione editoriale romana rappresentata dalle opere di uso devozionale e dai libretti destinati al pubblico dei meno colti: la stamperia della Reverenda Camera apostolica, quella di Propaganda fide e quella dell'Ospizio di San Michele finirono per rappresentare i veri concorrenti delle imprese legate alla Compagnia dei librari, che vedevano restringersi sempre di più i contenuti dei privilegi faticosamente rivendicati.

Anche la proposta di riforma del gesuita Francesco Antonio Zaccaria, rivolta a favorire il commercio librario a Roma mediante la difesa della corporazione dei librai come garante dell'ortodossia e la denuncia delle numerose smagliature che permettevano la diffusione del commercio illegale, era destinata a rimanere inascoltata. Non solo non riuscì possibile ridurre a ragione il mercato parallelo dei librai non patentati, tanto meno in materia di scambio con gli Stati esteri, ma quel che più conta cadde nel vuoto anche la proposta di rilanciare l'iniziativa editoriale, oppressa da una crisi strutturale legata agli alti costi delle materie prime e allo stato di arretratezza tecnica delle imprese.

Una situazione di crisi ereditata, così come la vedeva padre Zaccaria nella seconda metà del Settecento, anche dal nuovo governo francese nel periodo napoleonico inaugurato dalla riproposizione dell'alleanza fra autorità pontificia e Compagnia dei librai a scapito degli stampatori che, dall'inizio del Seicento, non facevano più parte di quella corporazione e subivano direttamente la perdita delle cartiere di Pioraco e Fabriano e l'agguerrita concorrenza, in privativa, delle stamperie pubbliche pontificie.

Il secondo articolo di questo volume si sofferma infatti sul disegno di politica culturale portato avanti negli Stati romani dagli amministratori francesi, a partire dall'istituzione della Consulta Romana, dominata dal ministro dell'interno Joseph Marie de Gérando e dall'ispettore generale delle arti Vincenzo Colizzi. L'inchiesta sullo stato delle imprese romane, promossa dalla Consulta nel 1810, evidenziò proprio quella mancanza di crescita del mercato che si lamentava nel secolo precedente: gli stampatori (12 aziende in tutto) vivevano di piccoli e grandi privilegi concessi dalle autorità, mentre rimaneva endemicamente diffusa la scarsità delle materie prime e l'arretratezza delle tecnologie. A questo quadro andava ad aggiungersi la permanenza di una forte imposta sulla carta, che già nel secolo precedente aveva aperto le vie del contrabbando e dell'accaparramento.

Mentre il dazio sulla carta potrà essere abolito, a nulla valsero i tentativi di impiantare una nuova fonderia di caratteri e di avviare la modernizzazione delle aziende tipografiche, e l'esperienza della Consulta si chiuse su questo insuccesso.

La storia della famiglia De Romanis assume, nell'ultimo saggio del volume, una funzione riepilogativa delle vicende dell'editoria romana dagli ultimi anni del Seicento alla metà dell'Ottocento, a partire cioè da Vincenzo De Romanis, "libraro a Pasquino", fino a Filippo, letterato e amico di Jacopo Ferretti, di Belli e di Leopardi. Il momento di maggiore gloria della famiglia è rappresentato soprattutto da Mariano De Romanis, che svolse la sua attività di libraio, editore e bibliofilo proprio in quegli anni, fra Sette e Ottocento, caratterizzati da rapidi cambiamenti politici e carichi di aspettative di riforma. Si deve alle sue capacità imprenditoriali la creazione di un legame, importante anche se provvisorio, fra le istituzioni, la vita produttiva e quella intellettuale della città. Ministro dell'Interno durante il biennio giacobino, Mariano ottenne committenze ufficiali anche dalla Consulta napoleonica e fu in contatto con i letterati più aperti al movimento delle idee negli anni della Restaurazione, rappresentando nelle scelte editoriali così come in quelle culturali una lungimiranza e una versatilità difficilmente eguagliabili nella Roma dei papi.

Viene spontaneo confrontare quanto emerge della situazione romana, a partire dal Settecento, con le vicende dell'editoria nelle altre capitali del nostro policentrico paese: un'indagine di questo tipo è stata già avviata, sempre a cura di Maria Iolanda Palazzolo, sulla rivista "Roma moderna e contemporanea", che ha dedicato buona parte del n. 2 del 1994 a una raccolta di saggi su Editoria e commercio librario nelle capitali italiane d'ancien régime (p. 311-466).

Ciò che emerge dalla lettura di questo dossier è il dato generale di una comune base di arretratezza delle imprese tipografiche ed editoriali italiane, dovuta in primo luogo all'aumento del costo delle materie prime: "Al di là di piccole differenze tra Stato e Stato, questa situazione denuncia con chiarezza i limiti strutturali dell'assetto tipografico in Italia e la scarsità delle risorse impiegate" (p. 313); così come appare generalizzata la perdita di effettivo potere da parte delle corporazioni e associazioni di mestiere, sempre meno in grado di controllare la produzione e i flussi della circolazione libraria, nonché l'attività delle figure impegnate nel settore. Tuttavia, per ognuna delle capitali osservate (Torino da Lodovica Braida, la Milano di Maria Teresa da Anna Paola Montanari, Firenze da Renato Pasta, la Napoli austriaca da Maria Consiglia Napoli, oltre la Roma del Settecento studiata dalla Palazzolo) vale il discorso che si faceva all'inizio per la situazione romana e che permette di sottrarsi alla tentazione di una visione appiattita quanto superficiale della vita culturale italiana: "se sul piano della produzione, l'offerta libraria [...] non esula dai filoni tradizionali del libro religioso o di storia antiquaria, infinitamente più ricca è l'effettiva circolazione del libro, che può godere di mille canali, leciti e illeciti, sui quali è sempre più difficile per l'autorità esercitare un severo controllo" (p. 313).

In conclusione, la ricerca diacronica della Palazzolo sull'editoria e le istituzioni a Roma e i contributi degli autori che hanno sviluppato sincronicamente l'indagine attraverso altre realtà italiane offrono anche un quadro aggiornato delle tendenze e dei risultati in una disciplina che negli ultimi anni ha finalmente ottenuto pieno riconoscimento.

Simonetta Buttò, Biblioteca nazionale di Roma