Il volume, che inaugura la collana «Biblioteca e documentazione» diretta da Diego Maltese, deriva da una ricerca svolta presso l'Università di Udine e chiusa in effetti al 1995. È un lavoro impegnativo di grande respiro dedicato all'evoluzione delle normative sia internazionali che nazionali dopo la pubblicazione dei Princìpi di Parigi, i quali - come nota l'autore - rifiutando regole fondate sulla casistica, complicate da eccezioni e da eccezioni alle eccezioni, avevano fissato una serie di punti ai quali le future norme catalografiche si sarebbero dovute attenere, avvicinandosi a una compatibilità internazionale: scopo confermato da A.H. Chaplin, che nel 1966 avrebbe pubblicato un'edizione provvisoria annotata degli stessi princìpi. Princìpi internazionali comuni, dunque, che al tempo stesso lasciano considerare inattuale una norma internazionale unica, resa improponibile per differenze non solo di tradizioni catalografiche, ma anche di culture locali. Tradizioni catalografiche, peraltro, alle quali in alcuni casi si rinunciò, sia da parte dei tedeschi che da parte angloamericana (in particolare, per quest'ultima, con la seconda edizione delle AACR). Interessante, tra le considerazioni che infiorano la documentatissima serie degli avvenimenti catalografici, quella che dall'esperienza franco-canadese si confermi la necessità che le regole aderiscano strettamente alle singole realtà culturali e linguistiche, dal che si spiega «il fallimento della pretesa delle AACR di porsi come codice internazionale perché troppo caratterizzato; anzi sembra confermare con la forza della prova l'impraticabilità di un qualsiasi codice internazionale». Ci viene ricordato che, oltre ai paesi promotori delle AACR2, quelli che le adottano integralmente o con lievi modificazioni sono molto numerosi (una sessantina), anche se «l'uso delle AACR come metro di riferimento» potrebbe indurre a una valutazione per eccesso. Ed è questo un punto che a mio avviso si presta a discussione: non è tanto intendimento delle AACR proporre la propria adozione fuori dell'area linguistica inglese, quanto è il loro uso a farne constatare la diffusione. Infatti dalla stessa sezione geografica l'uso diretto delle AACR risulta alquanto diffuso fuori del loro raggio istituzionale. In più di un punto Buizza ritorna sul tema dell'improponibilità delle AACR come norma internazionale (ad esempio, a p. 135-136), tema ripreso recentemente in un articolo che mi trova pienamente d'accordo sulla tesi, anche se a parer mio in quell'occasione non mi sembra ci fosse materia per contendere... (Diego Maltese, Le AACR ora anche in italiano, «Accademie e biblioteche d'Italia», 65 (1997), n. 4, p. 5-16).
Il lavoro non intende porre in evidenza il monumento isolato, anche se importante: esso non considera tanto l'interpretazione e le differenze delle norme catalografiche in vigore, quanto «il processo di diffusione dei principi e delle pratiche e lo sviluppo di un linguaggio comune che proprio dalla Definizione di principi e dalle risoluzioni della Conferenza di Parigi prende l'avvio», e questo atteggiamento aiuta chi, riconoscendo nei Princìpi una pietra miliare nella storia della catalogazione, non intende considerarli come un documento intangibile in uno sviluppo storico. Che il testo dei Princìpi di Parigi non sia immutabile è confermato, ci ricorda Buizza, dallo stesso incontro di Copenaghen, l'International Meeting of Cataloguing Experts (IMCE), del 1969, noto per le sue conseguenze sulla descrizione catalografica, che si occupò anche dell'interpretazione dei Princìpi, per lo meno rispetto al commento di Chaplin, donde l'incarico a Eva Verona di un'edizione definitiva commentata, uscita due anni più tardi, che lasciava trasparire in alcuni punti l'eventualità di una revisione degli stessi Princìpi, continuando certo nella direzione da questi fissata, verso una compatibilità internazionale che le singole norme locali non garantivano ancora in maniera sufficiente. Ma ormai, in questo momento, l'interesse internazionale puntava sulla descrizione: basti pensare alla fortuna dell'ISBD. Alla Definizione dei Princìpi, nota Buizza verso la fine del lavoro, non è corrisposto uno sviluppo di pari qualità.
Lo shared cataloging program, avviato dalla Library of Congress nel 1966, pone in evidenza difformità descrittive tra gli usi dei paesi partecipanti che, se tollerabili in un confronto visivo, lo sono assai meno in un sistema automatizzato. Dalle discussioni dell'IMCE, come del resto dai successivi documenti ISBD, si evidenzia il duplice aspetto delle notizie catalografiche intese come oggetto di scambio di informazioni a livello internazionale e come modello catalografico per le singole biblioteche. Questo duplice aspetto delle bibliografie nazionali riflette due funzioni in gran parte sovrapponibili, che presentano tuttavia margini indipendenti, date le motivazioni differenti delle bibliografie nazionali e dei cataloghi. Buizza considera i risultati dell'IMCE «un accordo analogo a quello di Parigi», benché non vi vengano fissati princìpi generali.
Accanto all'interesse per la descrizione si accentua quello per l'uniformità dei punti di accesso, quasi come corollario ai Princìpi: incominciano a crearsi repertori derivati dalla collaborazione internazionale relativi ai nomi di persona, di Stati, di classici anonimi, di enti legislativi ed esecutivi dei vari Stati europei e africani, di opere liturgiche cattoliche. Di importanza particolare si è rivelato lo studio sul trattamento degli enti collettivi nei vari codici nazionali, pubblicato su incarico dell'IFLA dalla stessa Eva Verona (1975). L'avvicinamento non certo a un codice internazionale, ma a un linguaggio normativo più stretto di quello dei Princìpi di Parigi, che accentuasse l'importanza di direttive comuni, nasce di conseguenza per produrre il documento IFLA Form and structure of corporate headings (1980), attualmente in corso di revisione, che si limita alla forma da assegnare ai nomi di enti collettivi, senza intervenire sulla problematica dell'ente autore.
Il lavoro pone in evidenza la connessione tra fasi che la tradizione catalografica tende a trattare separatamente: così la continuità tra l'IMCE e il controllo bibliografico universale (UBC), e ovviamente tra quest'ultimo e la disponibilità universale delle pubblicazioni (UAP). Alla collaborazione internazionale sempre più intensa si accentua la necessità di interventi normativi o quanto meno di direttive comuni. La SBD è considerata nell'attività dell'IMCE, benché non venga citata nella ricchissima bibliografia, verosimilmente per il suo stato di bozza che non consente di considerarla documento ufficiale (la sua importanza storica avrebbe forse lasciato preferirne l'inserimento, come ha fatto Rossella Dini nel suo Parente povero). Né mi sembra costituisca una novità nel campo della normativa la revisione periodica degli standard, abituale per le norme ISO come per ogni altra forma di normalizzazione. Le eccezioni che vincolano a una stabilità duratura o costringono a inseguire le variazioni e le novità attraverso fonti molteplici non devono far testo.
Particolarmente interessante e accurato è l'esame dei codici e degli usi catalografici successivi ai Princìpi di Parigi, studiato paese per paese, con le segnalazioni bibliografiche relative. Bibliografia molto ricca, come si è detto, di consultabilità tuttavia non sempre evidente, collegata al testo da note a piè di pagina che vi fanno riferimento con una descrizione breve seguita dal numero di posizione. Della guida alle bibliografie nazionali di Barbara Bell l'autore non è giunto in tempo a utilizzare la seconda edizione, pubblicata da Saur nello stesso anno 1998. È ricordato tra gli altri il codice belga, quasi contemporaneo ai Princìpi, nel quale è evidente l'impostazione tradizionale, per nulla influenzata dai lavori che prelusero alla Conferenza. In questo settore l'intervento o quanto meno gli accurati suggerimenti del relatore si fanno più evidenti, ad esempio nelle cinque dense pagine relative alla Germania, dove si sarebbe desiderato tuttavia un accenno alle due splendide liste di autorità (ricordate pur nella bibliografia) che costituiscono i volumi 6 e 7 delle RAK, rispettivamente per gli autori medievali e per i classici, la seconda delle quali potrebbe essere adottata integralmente anche in Italia. L'importanza assunta dalle liste di autorità d'altronde è ben riconosciuta da Buizza, che si sofferma in particolare sul conflitto tra i criteri nazionali e internazionali per la forma dei nomi personali. Un altro intervento interessante in queste stesse pagine riguarda il concetto ridimensionato di ente autore, in quanto le RAK preferiscono il termine di Urheber (responsabile originario) a Verfasser (autore). Per il Giappone occorrerebbe attenuare l'affermazione che le ragioni che fanno preferire il titolo all'autore siano dovute a motivi filosofici, in quanto l'identificazione sicura di una persona con un'intestazione la cui forma sia stabilizzata è resa meno probabile che nella tradizione occidentale, come d'altro canto si riconosce a p. 83. Sulla preferenza per il titolo e sull'alterna fortuna della scheda principale, anche per l'influenza americana, si può vedere The no-main-entry principle: the historical background of the Nippon cataloging rules, di Tadayoshi Takawashi, Tsutomu Shihota e Zensei Oshiro, in «Cataloging and classification quarterly», 9 (1989), n. 4, p. 67-77. Sarebbe stato forse opportuno rammentare, a proposito dell'obbligo di accesso al titolo, che questo è previsto nell'edizione ridotta delle AACR2, curata da Gorman. Significativa l'impostazione del nuovo codice giapponese, che non prescrive alcuna intestazione principale, ma presenta un supplemento con uno schema per sceglierla nel caso di elenchi nei quali una pubblicazione risulti presente una sola volta. L'importanza dell'accesso principale è in effetti diminuita fortemente ben prima dell'avvento del catalogo in linea, sicché la problematica relativa alla sua scelta potrebbe non occupare più la prima posizione in una futura normativa catalografica.
Si sarebbe forse potuto desiderare, in questa parte, una trattazione più approfondita per l'Italia, che è considerata invece con la medesima attenzione concessa ad altri paesi. Ma ne sarebbe nato uno squilibrio in un lavoro che non intendeva privilegiare una cultura catalografica particolare, sicché non si può che apprezzare l'autore per non essere caduto nella facile tentazione di considerare come furono accolte le RICA e quali furono le modalità della ricatalogazione, oppure di far notare la falsa contrapposizione tra descrizione RICA e ISBD, oppure ancora di evidenziare l'applicazione alternativa della norma sugli "autori voluminosi", della quale pure si parla in sede internazionale.
Un'altra osservazione interessante riguarda l'influenza reciproca tra ISBD e AACR, che portò alla revisione di entrambe, con un effetto di "osmosi", parola questa cara a Maltese oltre che a Ranganathan, che l'aveva impiegata nel campo della ricatalogazione e della riclassificazione (Prolegomena, DH). La presenza di Maltese si nota molto di frequente in queste pagine, a conferma della cura con la quale il docente ha trasmesso all'allievo la propria esperienza, come nell'annotazione sul contributo fondamentale di Lubetzky alla Conferenza di Parigi: potremmo parlare di osmosi anche sotto questo punto di vista? Forse no, se manteniamo a questa parola il significato originale di influenza reciproca e non unidirezionale. Così, l'annotazione sul rischio degli «adattamenti superficiali e improvvisati che non intaccano lo stile dei vecchi codici», i quali implicano sostanzialmente il rifiuto della novità effettiva. Può essere inteso come invito?
Eccellente presentazione per una nuova collana, questo volume costituisce una preziosa fonte di informazioni sulle vicende della catalogazione per autori a livello internazionale nell'arco di una generazione, se tale possiamo considerare i trentacinque anni successivi alla Conferenza di Parigi.
Carlo Revelli
Torino