Lettera al direttore


Caro Petrucciani,
mentre è infrequente che gli uomini di cultura, i quali dovrebbero essere maggiormente solleciti verso i problemi dello sviluppo e progresso delle nostre biblioteche, elevino la loro voce in favore di questi istituti, mi sono ricordato di un articolo scritto nel 1993 per «L'Unità» dal cantautore Francesco de Gregori che merita di essere conosciuto dai bibliotecari. Il suo titolo è:
Italiani, i più somari d'Occidente.
Te lo sottopongo nella versione originale affinché tu giudichi se sia meritevole di pubblicazione sul «Bollettino AIB», come a me piacerebbe.
Saluti cordiali

Giorgio de Gregori


«L'Unità», 22 maggio 1993

Che gli Italiani fossero un popolo di navigatori, di santi, di eroi etc. etc., e non propriamente di lettori lo sospettavamo, anzi diciamo pure che lo sapevamo. Ma scoprire di essere all'ultimo posto fra i paesi industrializzati per quanto riguarda l'utilizzazione delle biblioteche fa comunque una certa impressione. Da un rapporto dell'Onu risulta infatti che il consumo procapite in Italia è di 0,6 volumi all'anno, dopo Spagna e Grecia (1,3). In cima alla classifica, al primo posto, la Svezia.

Se mai avessimo sentito la mancanza di un ulteriore segnale di decadenza e di emarginazione del nostro paese dal contesto europeo, questo rapporto dell'Onu ci è di notevole aiuto nel ricordarci come nei paesi realmente "moderni", e quindi non in Italia, la struttura bibliotecaria rivesta un ruolo non secondario nel tessuto culturale, come rappresenti un servizio a portata di mano dei cittadini, come presumibilmente sia diffusa in maniera capillare nei diversi strati sociali. Come, in una parola, sia "un'offerta" articolata e flessibile per tutta la popolazione e non già l'oggetto di una faticosa e a volte frustrata ricerca. In Italia abbiamo sicuramente delle biblioteche che funzionano bene, ma l'impressione è che siano rivolte ad un'utenza in qualche modo già culturalmente selezionata (penso alle biblioteche universitarie, alla Nazionale di Roma, a quella di Firenze) e che comunque il buon funzionamento dipenda anche in questi casi più dall'intelligenza e dalla buona volontà dei singoli bibliotecari che non dalla cura e dall'attenzione dello Stato.

Pensiamo per esempio alle biblioteche scolastiche: dovrebbero costituire in qualche modo il volano dell'abitudine alla lettura per i giovani e i giovanissimi; dovrebbero dare l'imprinting non tanto dell'oggetto libro, quanto del concetto di utilizzazione comune del libro, proponendosi già fin dalla più tenera età come spazio aperto del sapere collettivo, terreno di scambio e di incontro da fruire parallelamente al percorso didattico integrandolo e facilitandolo. Credo però che nella maggior parte delle scuole queste biblioteche non esistano: o se esistono sono nascoste benissimo.

Pensiamo alle biblioteche di quartiere, altra occasione perduta. Dovrebbero, potrebbero essere delle piccole agorà decentrate, luoghi di dibattito e di riunione oltre che sede di lettura e di prestito. Sarebbero preziose, in questo momento storico di grande cambiamento e mobilità sociale, come strumenti di mediazione e confronto fra varie culture, addirittura, forse, come strumenti di integrazione. C'è chi ha pensato ad una sorta di biblioteca di quartiere multietnica: un'idea straordinaria e tutto sommato né complicata né costosa da realizzare, e che da sola dà l'idea delle infinite potenzialità di un luogo, grande o piccolo che sia, destinato all'incontro con la lettura.

Ma dov'è lo Stato che dovrebbe investire, finanziare, promuovere? Si racconta che il giorno dopo l'alluvione di Firenze del 1966 l'allora presidente della Repubblica Saragat, recatosi in visita ufficiale nella città devastata dalla piena dell'Arno e dall'umana incuria rispondesse al direttore della Nazionale che gli chiedeva un intervento immediato per ripristinare la funzionalità della Biblioteca gravemente danneggiata che prima di pensare alle biblioteche bisognava pensare ad altre cose, più importanti. Non so se questa storia sia del tutto vera (pare che la risposta del bibliotecario, secca e bruciante, sia stata: «Presidente, lei non è un uomo di cultura»). E non so dire nemmeno se questa risposta fu eccessiva e forse, per un uomo come Saragat, immeritata: certo però che questa storia si presta ad essere un esempio notevole della politica di disattenzione dei pubblici poteri verso il sistema bibliotecario nazionale.

E c'è da chiedersi se tanta disattenzione sia casuale o se invece dietro ad essa non si nasconda un'idea perversa della gestione e dell'organizzazione dei beni culturali del nostro paese; se in questa concezione del libro come oggetto noioso e faticoso e della biblioteca pubblica come luogo polveroso e paludato, lontano e disarticolato dal vivere quotidiano e quindi in fin dei conti inutile se non per gli addetti ai lavori, non vi sia la volontà politica di perseguire un'idea della società (sicuramente più comoda per i governanti) che tanto più si ritiene moderna quanto meno è realmente informata, e quanto più progredisce nel processo di industrializzazione tanto meno legge e si dota, conseguentemente, di strumenti di critica.

Lo scrittore Daniel Pennac sostiene che il verbo "leggere" è l'unico, oltre a "sognare" ed "amare", a non sopportare la forma imperativa. Non ha senso cioè imporre ad un individuo la lettura in maniera coercitiva. Così come non è possibile né lecito intimare a qualcuno: «ama!» oppure «sogna!».

D'accordo. Dovrebbe però essere un imperativo morale prima ancora che politico essere competitivi con gli altri paesi d'Europa sul piano delle politiche culturali. Questo 0,6 procapite è in realtà uno zero in condotta. Vergognamocene, se possiamo.