Verso l'albo professionale

Al Congresso di Napoli avremo davanti a noi passi fondamentali in direzione di un obiettivo, quello del riconoscimento della professione, che l'Associazione si è data con piena consapevolezza al Congresso di Viareggio nel 1987 (ben dieci anni fa) e che per tante ragioni - molte delle quali più grandi di noi - non siamo ancora riusciti a raggiungere.

Sono convinto, tuttavia, che il quadro politico e giuridico che si va delineando, fra integrazione europea e faticoso "sgessamento" delle gabbie normative e delle strutture amministrative del nostro paese, offra una cornice molto più coerente, efficace e moderna di quella in cui ci ponevamo, alla fine del decennio scorso, quando elaboravamo le proposte di legge per il riconoscimento della professione che non hanno avuto sbocco nelle ultime e brevi legislature.

Si va affermando l'idea, tipica della maggior parte dei sistemi giuridici europei, che le professioni si autoregolino, limitando il ruolo dei poteri pubblici non alla istituzione e definizione della professione stessa - come nelle nostre proposte di legge - bensì al solo riconoscimento di una funzione sociale utile già di fatto svolta, con risultati positivi, su una base associativa e di carattere giuridicamente privato. In altri termini, sono i professionisti associati, non il Parlamento, a definire una professione e i suoi contenuti, i suoi requisiti formativi, il suo codice deontologico, e quindi a costituire un albo, a regolare l'iscrizione a questo, a controllare - nell'interesse nel pubblico - qualità e correttezza delle prestazioni. Se queste funzioni sono svolte in maniera efficace e positiva, ne consegue un interesse pubblico al riconoscimento, sia di fatto che di diritto e in varie forme, di quello che gli studiosi chiamano un "governo privato". Un paradigma concreto che conosciamo è quello della Library Association britannica: il suo albo, privato ma autorevole, ha avuto la ratifica di un decreto reale e l'iscrizione costituisce una garanzia largamente riconosciuta, anche se non obbligatoria, per i datori di lavoro.

È in questa linea che si pone, sulla base di due direttive europee del 1989 e 1992, anche la bozza di proposta di legge del CNEL per il riconoscimento di associazioni professionali di carattere privato che svolgano effettivamente un ruolo di regolamentazione, verifica e controllo del loro settore di attività. L'importanza di queste direttive europee, una delle quali fa esplicito riferimento ad albi professionali privati esistenti in vari paesi dell'Unione (compreso quello della Library Association), era stata subito colta dall'Associazione, che proprio nel 1992 iniziò a valutare le possibilità di muoversi su questa strada. Prevalsero, tuttavia, aspettative poi dimostratesi infondate sulla maggiore praticabilità della tradizionale "via italiana" agli ordini professionali, e soprattutto emerse una diffusa impreparazione a calarsi in un quadro nuovo, in cui alla rituale "questua" verso il Parlamento/Sovrano si sostituisce l'iniziativa privata che dimostra le proprie capacità di realizzazione e chiede quindi non un grazioso privilegio in bianco ma il riconoscimento di ciò che già esiste e ha dato prova di funzionare.

Possiamo ora riguadagnare il tempo perduto, adottando nel Congresso di Napoli il nostro primo codice deontologico - uno dei requisiti necessari di un collegio professionale, esplicitamente richiamato anche nelle proposte del CNEL - ed avviando la discussione sulla costituzione e sulla gestione del nostro albo professionale, con la prospettiva di arrivare nel prossimo anno alla sua approvazione.

Un albo professionale deve innanzitutto definire in che cosa una professione consista e quali siano i requisiti per esercitarla. Il primo compito è stato già svolto in maniera eccellente nelle nostre proposte di legge, che per questo aspetto costituiscono un punto fermo. Sono invece necessariamente da ridefinire, nel diverso quadro giuridico ed operativo che ci si prospetta, i criteri e le modalità di accesso. La rigida separazione, inevitabile ma sempre discutibile, fra prima costituzione di un ordine professionale ed accesso "a regime" non ha più ragion d'essere per un albo privato, così come è impraticabile il meccanismo allora previsto di un esame di Stato, che di Stato non sarebbe più e che certo l'Associazione non potrebbe gestire con modalità analoghe.

Esistono, fortunatamente, dei punti di riferimento generali, come la chiara tendenza della legislazione europea a dare pari dignità e valutare complessivamente sia i formali titoli di studio, sia le altre attività di formazione e aggiornamento, sia le esperienze professionali di qualsiasi genere. Disponiamo anche di ottimi esempi specifici, come quello della già citata Library Association britannica e quello, meno noto, del Col.legi Oficial de Bibliotecaris-Documentalistes de Catalunya.

In linea di principio, come chiariscono molto bene le indicazioni della Library Association (riportate anche nel suo sito Web), le verifiche indispensabili per l'accesso a un albo professionale non devono duplicare né il ruolo delle strutture di formazione (e quindi i relativi programmi, esami, ecc.), né quello delle strutture di selezione per il lavoro (di tipo concorsuale, come nella nostra amministrazione pubblica, o di tipo aziendale). Oggetto delle verifiche non deve essere l'apprendimento di specifiche cognizioni, bensì l'esercizio competente delle attività professionali, così come risultano effettivamente svolte, nel contesto proprio di ciascuno.

In pratica, occorrerà definire innanzitutto un plafond di formazione e/o esperienza professionale, in qualche modo quantificato ma senza vincoli rigidi che non corrisponderebbero alla varietà dei percorsi di formazione e autoformazione ancor oggi prevalente in Italia. Del resto, anche in paesi assai più avanzati, come la Gran Bretagna, il possesso di un titolo universitario specifico è obbligatorio solo da una ventina d'anni. Di solito, pure in presenza di un titolo di formazione specifico e riconosciuto si richiede comunque una sia pur limitata esperienza pratica, analogamente al tirocinio previsto anche in Italia da varie professioni (medici, procuratori legali, ecc.). All'estremo opposto, una adeguata esperienza professionale comporta di per sé l'acquisizione di competenze e capacità, quindi una formazione, anche se fuori da un quadro istituzionalizzato. Per tener conto di questa varietà di condizioni dovremo quindi mettere a punto un sistema di crediti, o di equivalenze, in cui attività diverse possano essere ricondotte a una misura comune (di solito, anni di formazione o di attività professionale a tempo pieno).

Accanto a questo plafond minimo, a cui vincolare la possibilità di richiedere l'iscrizione all'albo, andrà prevista la necessaria verifica della professionalità effettiva, in forme il più possibile flessibili e snelle, a mio parere, sulle linee ben collaudate dalla Library Association e da altre associazioni straniere. Per esempio, attraverso il curriculum professionale accompagnato, secondo le condizioni e le possibilità di ciascuno, da ogni tipo di documentazione utile (attività svolte, esperienze acquisite, relazioni ed elaborati, pubblicazioni, referenze, ecc.) e dall'eventuale ricorso, per ulteriori chiarimenti che si rivelassero necessari, ad un colloquio o intervista. Personalmente credo che bisognerà soprattutto guardarsi dalla tentazione di applicare per inerzia procedure formalistiche e farraginose, tipiche della nostra tradizione burocratica, di cui conosciamo bene sia la vessatorietà che l'inefficacia a fornire reali garanzie.

Gli aspetti da esaminare e mettere a punto potranno essere numerosi, ma sono convinto che per questa strada, oltre a conseguire un risultato da tanto tempo atteso, avremo anche modo di verificare concretamente la nostra capacità, come comunità professionale, di elaborare e definire al nostro interno metodi e criteri condivisi, sui quali sviluppare poi un ruolo sempre più ampio della nostra Associazione nel campo della normalizzazione, della certificazione e della garanzia di qualità dei servizi.

Alberto Petrucciani