Affrontare l'information overload:
una riflessione sulle patologie da eccesso di informazione

di Alberto Salarelli


Tra le vetrine virtuali delle librerie che offrono i loro prodotti su Internet, apparve qualche tempo fa un'indicazione bibliografica che riportava erroneamente il titolo del più celebre volume di Jeremy Rifkin: L'era dell'accesso, verosimilmente per un errore di battitura, era divenuta "l'era dell'eccesso" i. Lapsus freudiano, verrebbe davvero da dire in questo caso: chissà cosa rimarrà di noi nelle memorie che lasceremo alla posterità, chissà se coloro che ci seguiranno su questo pianeta guarderanno ai nostri anni come a una grande rivoluzione democratica nei confronti dell'accesso a uno smisurato patrimonio informativo, oppure se verremo ricordati come coloro che vissero la rivoluzione telematica senza riuscire a venire a capo del problema rappresentato dalla sovrabbondanza di offerta di informazioni rispetto alla capacità di digestione della fisiologia umana, pur supportata dagli strumenti tecnologici disponibili in suo ausilio.
Sia detto subito senza circonlocuzioni di sorta: il problema dell'eccesso di informazione non è tipico unicamente di coloro che per mestiere producono, mediano e utilizzano l'informazione stessa. È un problema molto più generale, che affligge in misura più o meno accentuata tutti coloro che vivono in paesi ad alto tasso di tecnologia informativa, in situazioni ove l'accesso ai mezzi di comunicazione di massa non è più una questione di potere d'acquisto quanto piuttosto di capacità di utilizzo, di know-how. Per questo motivo non si vuole in questa occasione prestare attenzione alle situazioni patologiche estreme, quanto piuttosto rivolgere lo sguardo all'aspetto cronico, alle malattie cosiddette "sociali". Insomma: se volessimo appoggiarci al paragone già visto tra fabbisogno calorico e fabbisogno di bit, vorremmo preoccuparci, più che degli stati di obesità acuta, delle "malattie del benessere": sovrappeso, diabete, disturbi cardiovascolari, gotta.
Si parla frequentemente di "impatto" della rivoluzione informativa nei confronti della società. L'uso del termine è fuorviante, non perché manchi una reazione del corpo sociale ai mutamenti delle tecnologie e dei flussi informativi, quanto piuttosto perché questi fenomeni non si manifestano attraverso uno scontro frontale, esplosivo, spettacolare, sonoro. Si tratta piuttosto di una forma di pervasione sottile, impalpabile quanto lo sono i bit che attraversano il nostro spazio, il nostro corpo, la nostra umana materialità. Non per questo però è meno azzardata l'affermazione che «nel mondo digitale il mezzo non è più messaggio» [1, p. 69]: liberati dalla loro apparenza materiale i dati sono pur sempre composti, trasmessi e registrati tramite strumenti analogici dai quali dipendono tutte le nostre reti informatiche. Senza un'interfaccia non sapremmo che farcene della "pura" rappresentazione numerica delle informazioni: con le tecnologie digitali siamo di fronte a un nuovo tipo di "mezzo" che, proprio per le sue rivoluzionarie possibilità, è l'ennesima ulteriore riprova di come non si possano sganciare - a livello interpretativo - i due termini del problema, contenitore e contenuto. Quando stramalediciamo il bancomat che si rifiuta di dialogare con noi, quando il pannello della biglietteria elettronica in stazione è fuori uso, quando il laptop esaurisce la propria carica ci rendiamo conto che l'interfaccia - per poter accedere al dato in formato digitale - è necessaria, a dispetto di quello che pensa Charles Hildreth: «the age of works imprisoned in physical bondage - that is, half- way, nearby technologies - may be nearing an end» [2].
La flessibilità dell'informazione digitale, il suo essere soft, non prescinde da tecnologie e materiali fisici, atomici, concreti: anzi ne dipende strettamente. È la natura di questa dipendenza, cioè del legame tra il messaggio e il mezzo, ad essere del tutto inusitata e, per questo, rivoluzionaria. Paul Virilio ne La bomba informatica accenna alla trasformazione dei sistemi di comunicazione pubblicitaria verificatasi nel corso del secolo appena terminato: «La pubblicità, semplice réclame di un prodotto nel XIX secolo, pubblicità industriale che suscita dei desideri nel XX, si accinge a diventare nel XXI secolo pura comunicazione, esigendo con ciò lo spiegamento di uno spazio pubblicitario fino alle dimensioni dell'orizzonte di visibilità del globo.» [3, p. 16].
Potremmo fare nostre queste considerazioni aggiungendo che la pubblicità, in fondo, non fa altro che cavalcare i sistemi di comunicazione informativa più adeguati per raggiungere un determinato target di potenziale clientela. Se dunque ammettiamo come vera la proposizione che la pubblicità è oggi una questione "ambientale", non di meno possiamo considerare "ambientale" la nostra permanenza più o meno voluta o percepita all'interno di un sistema informativo del quale fanno parte elementi di spicco, come gli apparecchi di ricezione e trasmissione, altri più sommessi come i manifesti pubblicitari o le insegne luminose, via via verso una congerie sempre più minuta e innumerevole di materiali talora all'apparenza insignificanti ma che invece "significano" e che dunque agiscono in continuazione sui nostri recettori sensoriali e da lì verso la nostra Central Processing Unit, la mente. Il problema nasce dal fatto che, se per un computer è relativamente semplice procedere all'occorrenza verso un upgrade della memoria e della potenza di calcolo, per la mente umana il sovraccarico di informazione oltre una determinata soglia è ineludibile: varcare il limite della sopportazione fisiologica non può che causare spiacevoli interferenze nella condotta della persona stessa. Georg Simmel già nei primi anni del ventesimo secolo aveva avvertito l'acuirsi del disagio provocato dall'eccesso di informazione per chi si trova a vivere in una grande città: «Perciò colui che vede senza udire è molto più confuso, perplesso, inquieto di colui che ode senza vedere. In questo fatto deve risiedere un elemento significativo per la sociologia della grande città. Il traffico che vi si svolge, confrontato con quello della piccola città, mostra una preponderanza smisurata del vedere sull'udire gli altri [...]. La maggiore enigmaticità testé accennata dell'uomo che viene soltanto visto rispetto a quello che viene udito contribuisce certamente a causa dello spostamento che abbiamo menzionato, alla problematica del moderno sentimento della vita, al senso di disorientamento della vita collettiva, al senso di isolamento e di essere circondati da tutti i lati da porte chiuse.» [4, p. 553].
Anche Michael W. Hill (uno degli autori che utilizzano l'espressione impact of information) avvalora l'ipotesi che i mass-media tradizionali siano solo uno degli elementi della moltiplicazione di informazioni alla quale siamo sottomessi: infatti, a meno di non intendere estensivamente - sull'esempio di McLuhan - come mezzi di comunicazione di massa tutti quei dispositivi che amplificano la nostra rete relazionale, dai trasporti al denaro, la considerazione che «there has been, since the late 1950s, not only a growth in the consumption of reported information but also in that from first hand observation» [5, p. 7] ci riporta di nuovo ad una forma di consumo informativo quotidiano sotto le forme più molteplici e svariate.
Insomma - con buona pace di chi ancor oggi non è convinto che l'information overload sia un problema cruciale della nostra società, quanto piuttosto un'etichetta sotto la quale accomunare un senso generale di disagio esistenziale che può avere molteplici fattori scatenanti ii - la patologia è nota da tempo: uno dei grandi della psicologia mondiale ne riassumeva i tratti in questa frase, estratta da un saggio del 1956: «confusion will appear near the point that we are calling his “channel capacity”» [9, p. 83]. La riflessione di George Miller richiama immediatamente, nella scelta di utilizzare il termine "canale" per descrivere una transazione informativa tra un sistema e l'ambiente esterno, il modello di Shannon e Weaver [10] relativo alla teoria matematica della comunicazione, pubblicato solo qualche anno prima sempre negli Stati Uniti. Ed effettivamente il parallelismo tra lo studio della mente umana e lo sviluppo dei sistemi informativi digitali ha trovato nel corso del Novecento diversi punti di contatto su molteplici piani: da quello puramente terminologico (cervello elettronico, memoria), a quello più propriamente progettuale considerando - per esempio - che la teoria degli ipertesti prende l'abbrivio dal celebre articolo di Vannevar Bush intitolato As we may think [11], e che l'intelligenza artificiale è tutt'oggi uno dei settori di spicco della ricerca nel campo delle tecnologie informatiche. La stessa espressione gergale "bere da un idrante" nasce nel mondo degli informatici per identificare un overrun, cioè il comportamento anomalo in una rete digitale di una macchina che, per un malfunzionamento, spedisce a uno o più destinatari una serie di pacchetti di bit in una quantità tale da rendere impossibile la loro gestione. Delineare insomma una storia dell'information overload significa anche ripercorrere le tappe più significative nel percorso di sviluppo dei sistemi di telecomunicazione e di controllo dei flussi informativi. Il lavoro di James Beniger, The control revolution [12], prende proprio lo spunto dalla necessità, avvertita dalla metà dell'Ottocento in poi, di sviluppare strumenti in grado di aiutare l'uomo a controllare le potenzialità degli apparati meccanici allora a disposizione. Salvo il fatto che quegli stessi apparecchi nati per controllare un processo industriale, un sistema di spostamento, una catena di distribuzione - cioè una qualsiasi forma di energia applicata a un materiale - si sono rivelati nel tempo potenzialmente più efficienti se fra loro correlati in reti aumentando così simultaneamente il volume di traffico dei dati utili (informativi), quello di dati all'apparenza inutili ma vitali (per esempio le informazioni di servizio), oppure quello di dati realmente dannosi in quanto scaturiti da un guasto del sistema o da un uso improprio del medesimo.
Bisognerebbe a questo punto tentare di rispondere alla domanda di Angela Edmunds e Anne Morris [13, p. 19]: «information overload or data overload»? Cioè: qual è la natura del materiale il cui eccesso ci logora? In modo paritario, nell'overload andrebbero comprese tanto le informazioni quanto i dati grezzi. Infatti gli eccessi si pongono sia quando siamo in grado di decodificare il dato, sia quando la decodifica ci è preclusa (e dunque il dato rimanga un materiale informativamente inerte). Se, per ipotesi, nella stanza ove stiamo leggendo un libro qualcuno entra e accende il televisore siamo disturbati, oltre che dalla maleducazione dell'intruso, tanto se il canale selezionato è in italiano quanto se vi si parla in una lingua a noi ignota. Lo stesso discorso potrebbe valere per lo spamming postale o, estremizzando, per il complesso delle leggi e delle norme dello Stato. Ciò che ci urta, che ci disturba, non è il grado di comprensione di ciò che ci sommerge, ma l'incapacità di controllo quantitativo: come il sovraccarico di dati è di nocumento alla funzionalità di un sistema informativo, allo stesso modo l'organismo umano soffre della condizione di iper-informazione nella quale si trova ad agire. La possibilità di usufruire di strumenti che amplificano le facoltà umane in termini di comunicazione a diversi livelli (broadcasting, groupcasting, narrowcasting), e che di conseguenza ampliano il numero e le dimensioni delle reti relazionali nelle quali ci troviamo ad essere coinvolti, è una delle grandi condizioni drammatiche dell'esistenza umana in questo periodo di transito tra due millenni. Quantitativamente parlando usufruiamo oggi di un numero di contatti, di conoscenze, di relazioni interpersonali che è svariate volte superiore a quello dei membri delle generazioni che ci hanno immediatamente preceduto: la sfasatura fra tempo biologico della vita umana e la moltiplicazione delle attività che in essa riusciamo a condurre in virtù della tecnologia è insomma una delle condizioni più emblematiche, e allo stesso tempo più drammatiche dei nostri tempi. Come scrive Giovanni Gasparini: «occorre dunque prendere atto che la sensazione di scarsità di tempo è l'altra faccia dell'enorme aumento delle potenzialità di interazione, di relazionalità, di accesso a beni e servizi, di sviluppo di esperienze in tutti i campi che è consentito e anzi stimolato dalle tecnologie e dagli sviluppi economici e culturali dei nostri sistemi.» [14, p. 90] iii
. Naturalmente l'accrescimento esponenziale della quantità di informazioni processate dal sistema-uomo influisce in maniera determinante sulla qualità di ciò che viene effettivamente utilizzato. Già Hegel aveva posto il problema: «La variazione del quanto è anche un mutamento della qualità. Lo smisurato si ha innanzitutto in quanto una misura, per via della sua natura quantitativa, va oltre la sua determinatezza qualitativa.» [15, p. 302-303]. L'eccesso di offerta informativa porta ad una inevitabile svalutazione della merce trattata, l'informazione stessa, la quale tende sempre più ad abbassarsi al livello del mero dato, cioè di pura quantità, al di fuori da ogni valore aggiunto fornito da una contestualizzazione ovvero dall'inserimento in un sistema raccordato di elementi simili: un processo quest'ultimo che è figlio di quei ritmi rallentati che la riflessione impone e che dunque, inevitabilmente, oggi fatica a trovare applicazione.
Quando si digeriscono ogni giorno milioni di parole, soprattutto con l'udito, e di immagini è la percezione stessa ad essere fortemente condizionata verso un allontanamento dalla prospettiva analitica per procedere semmai verso quella superficialmente sinottica iv. Si elegge allora un elemento distintivo (generalmente il più appariscente) e quello si utilizza per un sommario, e dunque spesso inutile, incasellamento di un determinato quantitativo di dati. Ci soccorre, talvolta, la volontà. Volontà di non fermarsi alla superficie nozionistica ma di provare a discernere le dinamiche che sono sottese a un accaduto o a un'affermazione. In fondo la differenza che separa un grande concertista da un violino di fila di un'orchestra di mezza via, non sono tanto le ore passate in compagnia dello strumento, quanto piuttosto le motivazioni con le quali ci si accosta alla propria professione. Da un lato le mille pagine di musica sono un'occasione continua di analisi, di scoperta, e fra queste si sceglie il tempo e il modo di approfondirne e amarne una, dall'altro le note scorse sul pentagramma sono l'espediente per tirare sera e portare a casa la pagnotta. D'accordo, poi c'è anche il talento innato: ma fra un talentuoso svogliato e un mediocre volenteroso, chi dei due vive la propria vita con più gusto, per non dire con più senso?
Se la valanga di informazioni che investe ogni giorno ciascuno di noi è una malattia sociale, bisognerebbe considerare come "medico di base" colui che vive fianco a fianco del paziente cercando di individuare, sulla base di un'approfondita esperienza eziologica, la migliore terapia. Vocazione e volontà: certo, ci sarà la tecnica, la capacità di padroneggiare i ferri del mestiere, la propensione teoretica all'analisi e alla descrizione documentaria, tutto giusto e ineccepibile; ma non sono che le armi di uno spirito che deve essere guerrier per poter svolgere il proprio lavoro a servizio di comunità troppo spesso avare di mezzi e ingrate di riconoscimenti.
Vocazione e volontà: sono atteggiamenti fondanti di una professione che nei secoli mai come oggi rappresenta un baluardo contro il definitivo imbarbarimento dello spirito, da intendersi innanzitutto come capacità di percepire sé stessi quali elementi di una determinata e complessa dinamica geografica e cronologica. Per questo motivo la possibilità di accedere a delle fonti informative di qualità oggi è determinante: informazione e identità sono termini correlati, il secondo non può svilupparsi senza il primo, e se l'informazione è massiccia e confusa anche la nostra percezione del mondo che ci circonda non potrà che essere tale.
Intendiamoci: i bibliotecari non sono gli unici depositari della funzione di filtro qualitativo nei confronti dei flussi informativi. Per esempio è perlomeno da definirsi criticabile l'atteggiamento di Paul Ginsparg, il fondatore del Los Alamos Arxiv E-print Archive, il quale attacca le politiche editoriali di gran parte delle riviste scientifiche che dedicano la maggior parte dei propri sforzi a scartare articoli non meritevoli di pubblicazione v, non considerando che proprio lì, nella massiccia opera di selezione, sta il salto di qualità. Saranno opinabili i criteri di scarto ma non l'opportunità dello scarto stesso (e dunque il valore aggiunto acquisito dai pezzi non scartati). E, sempre nella direzione della ricerca di qualità, insieme alle riviste scientifiche potremmo aggiungere molteplici professioni in qualsiasi settore della produzione e della ricerca: per far bene il proprio lavoro sempre occorrono informazioni valide e sempre è richiesto di produrne. Ciò detto è comunque il bibliotecario che incarna il ruolo di filtro non come componente complementare della propria professione, ma come elemento costitutivo, essenziale, deontologico. È la biblioteca la sede ideale ove «si elaborano le informazioni e si produce valore aggiunto» [17, p. 102], un valore rappresentato da quei nodi intrecciati pazientemente e sapientemente, sotto forma di schede catalografiche o di bibliografie, nodi che rappresentano la base per un sistema di relazioni - esplicite nel loro significato - tra le diverse fonti informative.
Lo scambio reciproco di informazioni è un processo vitale per gli abitanti del creato: come scrive Serrai «la facoltà informazionale e l'informazione sono parte essenziale del programma “vita-sopravvivenza-riproduzione” degli organismi viventi» [18, p. 26]. Ma vi è un altro punto di vista che va al pari considerato, quello psicologico: chi visita il Museo Internazionale della Croce Rossa a Ginevra ha occasione di osservare una esposizione di cartoline postali utilizzate per mantenere - durante la Grande Guerra - un contatto tra i soldati al fronte e i familiari. Il conforto è anche nella comunicazione, non solo nell'infermeria o nella gavetta. Per questo c'è un diritto a sapere, per questo il paragone tra cibo e informazione ha una sua ragione d'essere: entrambi sono elementi datori di vita. E naturalmente il rischio di indigestione si dà nell'uno come nell'altro caso.
L'infoglut si manifesta attraverso sintomi quali stress, incapacità di concentrazione, senso di spossatezza, mal di testa, le stesse manifestazioni che presenta nelle sue fasi iniziali la cosiddetta "sindrome da affaticamento" (fatigue syndrome) al punto che in alcuni studi si è ipotizzata una connessione tra le due malattie, quando non addirittura una duplice forma della stessa patologia inquadrata in due diversi gradi del decorso vi.
Si considerino ora queste due affermazioni: «Perhaps the many blatant and competing sources of information - radio, television, movies, magazines, and newspapers - contribute to the increased tension said to characterize our age.» [20, p. 696]; «Information overload, analysis paralysis, information fatigue syndrome, are all terms currently used to describe the situation when a person is feeling overwhelmed by the quantity of information they have to deal at work. These terms can be viewed as a sequential series of steps down which an employee might uncontrollably descend. Too much information for the brain to digest leading to an inability to appraise the situation which in turn leads to feelings of extreme weariness.» [8, p. 2]. Quarant'anni scarsi corrono tra l'una e l'altra, un lasso di tempo sufficiente per eliminare la formula dubitativa e per accoppiare definitivamente e indissolubilmente l'eccesso di informazione all'introduzione delle tecnologie elettriche ed elettroniche in grado di rappresentare, registrare, moltiplicare e trasmettere dati sotto forme differenti ma con il comune denominatore della quantità e della velocità. Quarant'anni nei quali si è assistito a una sempre maggiore esasperazione degli effetti di questa sindrome che tende ad annidarsi sempre più profondamente nel nostro corpo, scendendo negli oscuri recetti dell'uomo laddove la res cogitans si unisce alla res extensa, luogo ove germinano oscure reazioni psicosomatiche: dermatiti, eritemi, eczemi seborreici [21].
Siamo dunque a un momento di passaggio fondamentale nella storia della comunicazione umana, ci troviamo nell'incapacità fisica - psicologica e corporea - di tollerare la quantità di informazione che riusciamo a produrre grazie alle tecnologie da noi stessi implementate. E non è nemmeno pensabile spegnere la luce, chiudere la porta e, quatti quatti, eclissarsi. Non è pensabile perché la massiva dose di dati che giornalmente vengono trattati è il combustibile dell'intero sistema sociale che da essi è alimentato e che con essi continua ad espandersi in forme sempre più complesse e sofisticate. Una delle citazioni che Neil Postman ama inserire nei suoi discorsi, è questa massima di Goethe: «One should, each day, try to hear a little song, read a good poem, see a fine picture, and, if it is possible, speak a few reasonable words» [22]. Una serie di lodevoli intenzioni, peccato che tra i tempi di Goethe e i nostri siano trascorsi i duecento anni più esplosivi nella storia del genere umano, in termini di rivoluzioni sociali, economiche e tecnologiche. Siamo seri: pur avendone l'intenzione, possiamo permetterci di seguire la dieta mediatica "alla Goethe"? Possiamo evitare i contatti che, in quanto membri di una rete relazionale privata e/o professionale, ci giungono ormai da ogni parte del mondo? Possiamo chiudere i nostri recettori alla veicolazione informativa dei media?
Nella sua homepage Donald Knuth, professore emerito di informatica a Stanford, dichiara: «I had been an happy man ever since January 1, 1990, when I no longer had an email address» vii. Siamo felici per lui, un po' meno per la sua segretaria che si sobbarca l'onere di smistare telefonate, fax, posta tradizionale e anche, come candidamente ammesso dal cattedratico, di spedire per suo conto qualche messaggio di posta elettronica quando l'urgenza e l'occasione lo impongono. È insomma lo stesso motivo per il quale, con ogni probabilità, mai vedremo il Presidente della Repubblica o il Pontefice con un telefono cellulare in mano: c'è chi può permettersi il lusso della irreperibilità perché c'è qualcuno che pensa a mantenere i contatti per lui. Ma c'è anche un altro risvolto della questione, infatti senza considerare l'enorme problema di chi vive soffrendo la propria condizione di esclusione da un sistema informativo perché non ha i mezzi materiali per potersi connettere a una rete (non dovremmo mai dimenticare che a tutt'oggi - per riprendere le parole di Kofi Annan - «ci sono più telefoni a Tokio che in tutta l'Africa» [25]), anche all'interno della nostra società operano gli effetti del digital divide, spesso per incapacità di utilizzo dei sistemi, vero e proprio totale analfabetismo tecnologico, da parte di intere fasce di popolazione viii. Ciò nonostante queste situazioni di "esclusione", volute o subite, rimangono situazioni limite che non incidono sul problema dell'inquinamento informativo ambientale i cui effetti ricadono, più o meno, su tutti i cittadini di questa parte del mondo.
Le soluzioni al problema dell'information overload passano attraverso molti approcci a più livelli. Per esempio in un recente rapporto di un executive dell'IBM [43] viene presentata una lista di suggerimenti per affrontare il problema, suggerimenti sia rivolti all'organizzazione del sistema informativo interno all'azienda, sia ai singoli membri della medesima. In gran parte si tratta di espedienti pratici (evitare di spedire copie per conoscenza delle e-mail quando non strettamente necessario, utilizzare software per eliminare file temporanei, informare periodicamente il dipendente sul tempo da lui trascorso a navigare in Web, eccetera) fra loro "cuciti" dall'elemento cardine di tutto l'impianto manageriale, cioè la mission dell'impresa, nell'ottica di una strategia globale adottata per il perseguimento degli obiettivi. Vi è dunque una "cupola" ove si decide se una determinata strategia informativa è vantaggiosa o meno per il sistema (se produciamo mele, è necessario che i nostri impiegati abbiano i computer connessi a Internet permanentemente? e se invece di mele produciamo opere liriche o consulenze legali?); le decisioni prese ad alto livello ricadono a cascata su tutta la struttura unitamente ad una sollecitazione mirata, a livello individuale nei confronti del singolo dipendente, affinché provveda a gestire il proprio spazio informativo limitando al massimo ogni forma di inquinamento o di inutile dispersione di tempo e di attenzione. Ecco una serie di raccomandazioni individuali apparse su «CFO Magazine» [27] ix:

Come si vede è facile (s)cadere nell'ovvio (leggete pochi giornali), nel vago (chi sono le persone che contano alle quali si può lasciare il numero del cellulare?) o nel ridicolo (come faccio a sapere quali sono i documenti più importanti prima di averli scaricati e letti? mi fido dei criteri di ranking del motore di ricerca?). Eppure ogni volta che si cerca di fornire una ricetta per affrontare il problema dell'information overload il rischio di andare a parare dalle parti della fiera del luogo comune è altissimo. E non potrebbe essere altrimenti dal momento che sono effettivamente molteplici i fattori soggettivi che influiscono sui filtri di valutazione della documentazione che ciascuno di noi processa in determinati contesti, con determinati strumenti, per determinati obiettivi. Quando poi, addirittura, le situazioni non sono affatto determinate, e l'informazione avvolge il nostro corpo e ci penetra inconsapevolmente, allora nella nebbia delle parole e delle immagini è realmente arduo identificare ciò che più o meno conta, ciò di cui non possiamo realmente fare a meno. Su queste secche peraltro si infossa la speranza di elaborare un software che giochi un ruolo realmente efficace come soluzione alle conseguenze della sovrabbondanza informativa: «Although such systems are under active research and development, it is fair to say that none has yet demonstrated an ability to significantly reduce overload in an operational setting. It is, however, likely that such systems will be an important part of the solution for the future.» [7, p. 254].
Può senz'altro essere d'aiuto una visione del problema che si distacchi dalla ricerca di soluzioni pragmatiche non per il gusto di passeggiare nei pascoli della metafisica, ma per ritornare con occhio più sagace, dopo una vista panoramica, alla soluzione delle questioni concrete. Troppo spesso infatti, come si è visto, le proposte offerte dalla letteratura professionale, soprattutto di matrice economistico/gestionale, sono fondate sulla mera ricerca tecnica di soluzioni a necessità contingenti, mentre il problema - come si sa - è ben più complesso. Giunge dunque insolito, ed estremamente apprezzabile, il richiamo apparso sull'«International journal of information management», da parte di due studiosi di area germanica [29] verso la necessità di una maggiore consapevolezza di quelle che sono le caratteristiche specifiche, fisiche e storiche, dei canali informativi ai quali abbiamo accesso. Senza questo tipo di sensibilità, di attenzione, ogni speranza di una valutazione consapevole della qualità dell'informazione recuperata non potrà che essere parziale e, troppo spesso, fallace. Conveniamo dunque con Königer e Janowitz sul fatto che «the proficiency of the systems integrator and the personality of the information processing individual are crucial to implementing the correct, formal structures. It will always be the human mind that is the master of this complexity» [29, p. 16]: non si può che eleggere, come punto di partenza, un atteggiamento personale nei confronti del problema.
All'inizio non si tratta di affrontare una fat-free daily reading diet alla Saul Wurman: quando si è alla dieta si è già, anche solo di un passo, collocati verso una prospettiva patologica x. Piuttosto si vuole sottolineare la necessità di sviluppare ciò che Carla Basili [31] definisce come "cultura dell'informazione", così come fa il gastronomo nei confronti del cibo. Chiamiamola pure information literacy se vogliamo rimanere agganciati a un vocabolario anglosassone, l'importante è chiarire gli intendimenti. Certamente, si ribadisce, guai a fermarsi alle tecniche: l'information literacy è innanzitutto un atteggiamento dello spirito, una visione del mondo, una risposta a un bisogno. Poi vi sono i modi e i mezzi. Ma prima gli scopi: non a caso diversi esperti del settore pongono al primo posto, nella scaletta di competenze necessarie a una corretta selezione informativa, proprio il riconoscimento del problema xi. Dunque, prima delle diete da informazione, sulle cui modalità ognuno si regoli per conto proprio a seconda di quanto ritiene grave la propria esuberanza alimentare, si tratta di riscoprire il piacere, il gusto dello scambio di informazioni, e chissà che gli ormai decennali successi ottenuti in questa direzione dalla cucina italiana non siano di buon auspicio anche per la biblioteconomia. Non c'è dieta che possa far di un obeso un gastronomo: qui si tratta di recuperare il gusto dell'apprendimento che il trattamento quantitativo dei sistemi informativi ha posto in secondo piano. Se l'obiettivo è quello di ottenere il massimo grado di trasformazione dell'informazione processata in effettiva conoscenza, occorre innanzitutto una predisposizione mentale favorevole alla selezione qualitativa che si traduce in un approccio ai problemi del recupero e della selezione che deve essere il più possibile contestualizzato ed interdisciplinare. Ma non basta. Occorre spingersi oltre, in quel territorio ove il processo di acquisizione dell'informazione diventa al contempo una necessità e anche un piacere: «Human beings require memories, and after a long day of using computerized buttons, secret codes and plastic cards, they need a moment of relaxation, to be by “by themselves” and “themselves”, to turn the pages of a book of their choice which is totally different in its form and content from the daily burden.» [34, p. 302].
Non c'è bisogno di scomodare Proust per riconoscere che un'informazione, legandosi a un'impressione, faticherà maggiormente a sbiadire nel ricordo (le memorie sensoriali sono infatti tra le più tenaci a persistere nell'uomo), e non è poi così arduo sostenere che quelle informazioni che realmente sono divenute i mattoni, quando non le testate d'angolo, del nostro edificio culturale siano quasi inevitabilmente associate a una particolare immagine, a un profumo, a un sapore. Non si dovrebbe mai dimenticare che la grandezza della lezione di Roland Barthes sull'importanza di assaporare alcuni dei documenti che ci passano tra le mani, sta anche nel fatto che ciò che si gusta non si dimentica, e gustare significa sostanziare nel proprio corpo la parola: «e questo corpo di godimento è anche il mio soggetto storico; giacché solo al termine di una combinatoria molto sottile di elementi biografici, storici, sociologici, nevrotici (educazione, classe sociale, configurazione infantile, ecc.), regolo il gioco contraddittorio del piacere (culturale) e del godimento (inculturale)». [35, p. 61-62]. Il punto chiave non è tanto l'ampliamento di una esperienza continua di shock sensoriali come in un ininterrotto spot pubblicitario, quanto piuttosto di favorire le condizioni, diciamo così "ambientali", perché una acquisizione di informazioni venga condotta nel modo più sereno e produttivo possibile. Quali sono queste condizioni? Jussi Koski, fra le altre, suggerisce che «a sort of deliberate passivity, idleness and laziness is an important aspect of infoglut prevention, creativity and, thus, of knowledge productivity» [30, p. 487-488], vale a dire la necessità di trovare spazio nella nostra giornata a momenti dedicati a ciò che gli antichi chiamavano otium: si deve insomma trovare il tempo di perdere tempo, magari sottraendo qualche ora ai cinquanta giorni che ciascuno di noi italiani, in media, passa in compagnia di Maurizio Costanzo, magari evitando quella fastidiosa abitudine a organizzare il tempo libero come se fosse tempo lavorativo, con la stessa metodica organizzativa, con la stessa ferrea scansione temporale, con il medesimo affanno nel raggiungimento di determinati obiettivi. Si fa presto a parlare, penserà qualcuno, ma io ribadisco che si fa anche molto presto a perdere quel tempo che "apparentemente" o "formalmente" è dedicato all'attività lavorativa e che però, in pratica, si traduce in un brancolare sconclusionato e frustrante tra le incombenze programmate per la giornata. Trovare spazi di otium personale e collettivo significa moltiplicare il rendimento del lavoro privilegiando ancora una volta la qualità rispetto alla quantità.
Il gusto dell'informazione, come quello per la buona cucina, anzi come per qualsiasi gusto in generale, si educa con lo studio e con le buone frequentazioni. Frequentazioni di persone, di luoghi, di occasioni che sviluppino una sensibilità alle sfumature e al contempo una esperienza nel saper cogliere il polso della situazione. In un articolo di qualche anno fa Richard Hopkins sottolineava come una parte sostanziosa dell'information literacy fosse basata su aspetti informali [36, p. 328]: sotto questo punto di vista la scelta e la valutazione di risorse informative passa attraverso una serie di attività che non possono essere tradotte in processi tecnici e che non possono essere insegnate in un tradizionale corso d'apprendimento. I bibliotecari sanno che la loro professionalità passa attraverso l'abitudine a un approccio sistematico ai problemi della mediazione informativa così come attraverso l'abitudine a operare in un sistema di relazionali interpersonali, sfruttando abilità pragmatiche affinate nel corso del tempo. Ciò che risulta difficile è trasmettere anche solo un poco di questa sensibilità nei confronti del problema a un'utenza informativamente illetterata. Che fare? Senza trascurare l'insegnamento delle tecniche fondamentali della ricerca bibliografica, si trovi il coraggio non di aprire, ma di spalancare le porte delle biblioteche a chi sa trasmettere il "gusto" per il documento, e l'utenza ce ne sarà grata. Sappiamo immaginare il ristoro di sentire leggere un verso dopo ore trascorse a un terminale, dopo innumerevoli chiacchiere di convenienza scambiate con le mille facce che incontriamo da mane a sera? Quelle parole urteranno contro molte impenetrabili corazze, ma in qualcuno faranno breccia. Si abbia il coraggio di condividere la fiducia del poeta: «Scrivendo per un giornale che ha mezzo milione di lettori ho l'impressione che lo sforzo sia perduto (ma lo faccio ugualmente, come se il fucile non fosse caricato a fumo); facendo qualche verso che so difficile, in una lingua europea ex magnifica, sfigurata e sopraffatta da scorie verbali tossiche, non più creativa nel popolo, mi sembra invece di scendere senza ostacoli in un grande uditorio sparso di orecchie attente. È una pura assurdità, ma è un vecchio effetto dell'esercizio poetico, e senza questo pensiero mi sembrerebbe di comporre versi per imbucarli nella mia bocca.» [37, p. 159-160].
Non abbiamo bisogno di conferenze in biblioteca ma di voci che sappiano leggere, e di mani che sappiano suonare. Saranno di volta in volta poeti o musicisti, registi o fotografi, non importa se grandi nomi oppure no: l'unica caratteristica richiesta è che siano in possesso di una dote, quella di saper far guardare con occhi nuovi una virgola, un accordo, un'inquadratura, una sfumatura di colore: cioè il minimo. Del resto Aby Warburg amava dire che «Dio è nel particolare», e non fu certo per caso che l'opera più compiuta e amata del grande storico tedesco fu proprio la costituzione di quella biblioteca che divenne in seguito il nucleo del Warburg Institute [38, p. 30]. Dovremmo pensare a creare spazi di riduzione della quantità informativa, spazi metaforici si intende, nella giornata della biblioteca, ove si insegni ad apprezzare l'unicum.
A volte la capacità di riuscire a fare a meno di qualcosa aiuta a vivere con più serenità situazioni difficili o disperate, e non è solo un discorso di necessità corporali: Antonio Gramsci, Marc Bloch, Eric Auerbach hanno composto i loro capolavori in carcere o in esilio, senza sterminate biblioteche a disposizione, se non quelle delle loro memorie, della loro sensibilità critica. Non si tratta di un proclama di rifiuto convinto e programmatico di ogni volontà di citazione bibliografica come invece è il caso del Discorso sul metodo di Cartesio xii - lo stesso Bloch in Apologia della storia ha male parole nei confronti di quei lettori che si lagnano delle citazioni xiii - è semplicemente un invito a riscoprire la funzionalità delle nostre portable libraries radicate fra le scaffalature dei nostri neuroni, un invito a metterci ogni tanto sulla medesima lunghezza d'onda di Mies van de Rohe il cui motto preferito, com'è noto, era less is more.
Il problema non è quindi di dire stop alla tecnologia, di rifiutare quei servizi telematici che l'utente ha imparato ad apprezzare fino talvolta a rimanerne assuefatto: ciò vorrebbe dire abdicare al ruolo che la società chiede venga rivestito dalle nostre istituzioni. Si tratta di fornire un servizio in più, attraverso il quale le biblioteche di libri e mattoni, e i bibliotecari in carne ed ossa tornino ad essere protagonisti, senza tema di concorrenze digitali, per dirla con Puttnam: «I rather like the idea of people, out of choice, wishing to go somewhere and, as a community, accessing information. I think that's extremely desirable. (...) This is a form, if you like, of benign social engineering». [41, p. 9].
Diamo un senso nuovo all'uscire di casa per andare in biblioteca, lasciando perdere per una volta computer e modem: facciamo delle nostre biblioteche i laboratori del gusto dove la professionalità si accoppia a un sorriso, dove si impara a distinguere il buono dall'ottimo, dove la nausea dell'eccesso possa avere finalmente parziale e temporaneo sollievo.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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[35] Roland Barthes. Il piacere del testo. Torino: Einaudi, 1975.

[36] Richard L. Hopkins. Countering the information overload: the role of the librarian. «The reference librarian», 49-50 (1995), p. 305-333.

[37] Guido Ceronetti. L'occhiale malinconico. Milano: Adelphi, 1988.

[38] Carlo Ginzburg. Da A. Warburg a E.H. Gombrich: note su un problema di metodo. In: Miti, emblemi, spie: morfologia e storia. Torino: Einaudi, 1992, p. 29-106 (precedentemente apparso in «Studi medievali», serie III, 7, 1966, p. 1015-1065).

[39] Cartesio. Discorso sul metodo. Roma: Editori Riuniti, 1986.

[40] Marc Bloch. Apologia della storia o mestiere di storico. Torino, Einaudi, 1969 (ed. or. 1949).

[41] David Puttnam. Citizens of the information society. «Journal of information science», 22 (1996), n. 1, p. 1-11.

[42] David Bawden. Information and digital literacies: a review of concepts. «Journal of documentation», 57 (2001), n. 2, p. 218-259.

[43] Peter Andrews. Fighting "infoglut": the forever challenge. IBM Global Services - News library - Insights, January 29, 2001. <http://www-1.ibm.com/services/files/etr_g5101608001.pdf>.

[44] Derrick de Kerckhove. La pelle della cultura: un'indagine sulla nuova realtà elettronica, a cura di Christopher Dewdney. Genova: Costa & Nolan, 1996.


ALBERTO SALARELLI, e-mail alberto.salarelli@unipr.it;
Università di Parma, Istituto di Biblioteconomia e paleografia, via Massimo D'Azeglio 85, 43100 Parma


[i] <http://www.galla1880.com/ita/propsett.html>.

[ii] Il riferimento va in particolare all'articolo di Tonya J. Tidline [6]. Sulla debolezza della tesi espressa dalla studiosa statunitense si erano già espressi David Bawden, Clive Holtam, Nigel Courtney [7, p. 251]. Un'altra confutazione nei confronti di un approccio "mitologico" in riferimento al problema del sovraccarico informativo è stata espressa qualche anno fa da Andrew J. Stanley e Philip S. Clipsham [8].

[iii] Ma si veda tutto il sottocapitolo 6.3 La gestione del tempo quotidiano, p. 88-91.

[iv] A tal proposito scrive Derrick de Kerckhove: «Coloro che non leggono si trovano in una condizione di permanente pensiero associativo, non in un'elaborazione di idee speculativa o specifica. Una tale organizzazione cognitiva favorisce le analogie e la formazione di miti» [44, p. 120].

[v] Cfr. Paul Ginsparg [16]. Vale la pena ricordare che la base di dati arXiv (<http://www.arxiv.org>) è uno strumento di lavoro indispensabile per gli scienziati - fisici, chimici, astronomi, matematici - del mondo intero che possono pubblicare i risultati delle proprie ricerche, oltre a consultare i lavori dei colleghi, senza attendere i tempi operativi vigenti nel mondo dell'editoria tradizionale.

[vi] È stata anche ipotizzata da parte di alcuni studiosi una connessione tra eccesso di informazione e depressione, si veda il saggio di A. de Rijk, K.M.G. Schreurs, J.M. Bensing, [19].

[vii] <http://sunburn.stanford.edu/~knuth/email.html>. L'affermazione è riportata anche da Donald Norman, Il computer invisibile, Milano: Apogeo, 2000, p. 135. Un altro avviso inquietante sui rischi insiti all'uso della posta elettronica venne lanciato qualche anno fa dal compianto direttore dell'MIT Michael Dertouzos: «E-mail is an open duct into your central nervous system. It occupies the brain and reduces productivity», riportata da D. Shenk [24, p. 29-30].

[viii] Un'articolata rassegna bibliografica sulla digital literacy costituisce il nucleo del saggio di David Bawden [42].

[ix] Altre proposte dietologiche più o meno pragmatiche, talora a livello di veri e propri espedienti di organizzazione personale della giornata o della scrivania, si possono leggere in: [7, p. 252-254], [24, p. 173-224], [28, p. 40-47].

[x] Il riferimento è al volume di Saul Wurman, Information anxiety [26].

[xi] Si veda, fra gli altri, Christina S. Doyle [32], ma soprattutto il final report della American Library Association [33].

[xii] «Pensai inoltre che le scienze racchiuse nei libri, almeno quelle fondate non su dimostrazioni ma su argomenti solo probabili, nate e accresciute poco a poco dalle opinioni di molte persone diverse, non possono, proprio per ciò, avvicinarsi alla verità quanto i semplici ragionamenti di un uomo che, intorno alle cose che gli si presentano, fa uso del suo naturale buon senso» [39, p. 66].

[xiii] «Ma quando taluni lettori si lagnano che la minima riga, isolata sotto il testo, confonde loro le idee, quando taluni editori pretendono che i loro clienti, in realtà meno ipersensibili di quanto essi amano raffigurarli, soffrono le pene del martirio alla vista di ogni foglio così disonorato, quegli schifiltosi dimostrano semplicemente la loro impermeabilità ai più elementari precetti di una morale dell'intelligenza», [40, p. 87].