Storie di ordinaria dittatura: i bibliotecari italiani e il fascismo (1922-1942)

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Alberto Petrucciani

Abstract

L'articolo non vuole affrontare il più vasto tema di "fascismo e biblioteche", la politica bibliotecaria e le realizzazioni del ventennio in questo campo, ma si propone lo scopo di iniziare una ricostruzione della presenza e delle posizioni dei bibliotecari in questa fase della storia della società italiana. Il periodo fascista è un periodo di modernizzazione tecnica delle biblioteche italiane ma anche di irrigidimento del sistema bibliotecario italiano. Nasce in questo periodo una rappresentanza professionale dei bibliotecari (l'Associazione dei bibliotecari italiani, nel 1930) e qualche anno prima era stato costituito un vertice amministrativo (la Direzione generale delle accademie e biblioteche, nata nel 1926 e rimasta sostanzialmente la stessa fino ad oggi) che agiva come filtro fra la politica e la professione.
La presa del fascismo tra i bibliotecari italiani, negli anni intorno alla Marcia su Roma, è molto limitata. Molti liberali considerarono il fascismo come un "male minore" rispetto alle tensioni sociali del 1919-1920, ma sono pochissimi e di scarsa importanza i bibliotecari che aderirono al fascismo prima della Marcia su Roma, come il conte Giuseppe Lando Passerini (1858-1932), bibliotecario alla Nazionale di Firenze e alla Laurenziana, o Antonio Toschi, bibliotecario a Bologna. Nessuna personalità importante del mondo delle biblioteche aderì al Manifesto degli intellettuali del fascismo (1925) scritto da Giovanni Gentile; pochi sono anche gli aderenti alla risposta preparata da Benedetto Croce, ma fra questi troviamo Emidio Martini, direttore della Biblioteca nazionale di Napoli in pensione.
Tra gli esponenti del Partito Fascista troviamo alcuni direttori di biblioteca, come Italo Lunelli (1891-1960) direttore della Biblioteca comunale di Trento e Leonardo D'Addabbo (1893-1958) direttore della Biblioteca consorziale di Bari, che però non ebbero un ruolo significativo nella professione. Il personaggio più interessante è Piero Zama (1886-1984), fondatore del Partito fascista a Faenza e direttore della Biblioteca comunale della città dal 1920 al 1957. Zama però si staccò dal fascismo per il suo carattere reazionario e venne poi perseguitato.
Le biblioteche furono spesso, invece, dei rifugi relativamente tranquilli per le persone contrarie al Fascismo. Alla Biblioteca Vaticana lavorarono Gerardo Bruni (1896-1975) e Igino Giordani (1894-1980), che avevano collaborato con don Sturzo nel Partito popolare e che furono mandati dalla Biblioteca a studiare biblioteconomia in America, nel 1927. Più tardi lavorò alla Vaticana anche Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio dopo la Liberazione. Nelle biblioteche statali venivano spesso destinati insegnanti di liceo e professoni universitari antifascisti che il Regime voleva togliere dall'insegnamento: per esempio Bianca Ceva ed Elena Valla alla Biblioteca nazionale di Milano, il filosofo Giuseppe Rensi alla Biblioteca universitaria di Genova e Pilo Albertelli (1907-1944), eroe della Resistenza, alla Biblioteca nazionale di Roma.
Nel periodo fascista venne costituita, dopo il Congresso mondiale delle biblioteche e di bibliografia tenuto nel 1929 a Roma e Venezia, l'Associazione dei bibliotecari italiani (dal 1932 Associazione italiana per le biblioteche), controllata dal Ministero dell'educazione nazionale ma indipendente dal Partito. Il Partito fascista costituì una propria Sezione Bibliotecari nell'Associazione fascista del pubblico impiego e poi nell'Associazione fascista della scuola: queste associazioni ebbero larghe adesioni, per i vantaggi che offrivano, ma non svolsero attività significative nel campo delle biblioteche. La relativa autonomia dell'AIB dalla pressione del Fascismo fu resa possibile dal prestigio del presidente, l'uomo politico e professore Pier Silverio Leicht, e dalla Direzione generale delle accademie e biblioteche, che gestiva il settore delle biblioteche limitando per quanto possibile l'ingerenza politica e ideologica.
I direttori delle biblioteche statali che non erano favorevoli al fascismo restarono di solito ai loro posti, ma negli anni Trenta la tessera del Partito nazionale fascista diventò necessaria per i funzionari dello Stato e alcuni bibliotecari antifascisti vennero destituiti, come Pietro Zorzanello dalla Biblioteca Palatina di Parma nel 1934 e Anita Mondolfo dalla Biblioteca nazionale di Firenze nel 1937. Nel 1938 vennero licenziati dallo Stato i bibliotecari ebrei. Parecchi bibliotecari antifascisti preferirono prendere la tessera del PNF e rimanere ai propri posti, dove potevano operare per le biblioteche e, dalla fine degli anni Trenta, per la loro protezione dai rischi e dai danni della guerra.
Dal 1934 nei congressi dell'Associazione italiana biblioteche diventò obbligatorio portare la camicia nera, divisa del Partito fascista, ma le fotografie della sala del convegno nel 1934 e nel 1940 mostrano che solo pochi bibliotecari la indossavano, o indossavano l'uniforme degli impiegati dello Stato introdotta nel 1938, mentre la maggioranza continuava a indossare i propri abiti borghesi. La fascistizzazione del mondo delle biblioteche fu soprattutto burocratica e rituale, imposta dall'esterno ma limitata ai discorsi ufficiali nei congressi e sulla rivista del Ministero, non incise in maniera rilevante sulla cultura dei bibliotecari, che cercarono di contrastarla in maniera coperta o di ignorarla.

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